Il Concetto di Organizzazione - Un Approccio Sistemico per la Pubblica Amministrazione


Tra il 2003 e il 2004 frequentavo il MASTER Universitario di II° Livello in "Management Publico e eGovernment" e tra i numerosi spunti emersi durante il corso, quelli più tangibili sono racchiusi all'interno di alcuni lavori, tra i quali quello che segue. L'articolo, dopo una breve introduzione necessaria a chiarire definizione e concetto di Organizzazione a vari livelli, offre un punto di vista che fa proprio, già da allora, l'attuale abusato paradigma delle Reti Complesse che è servito più a fare business nello sviluppo dei Social Media che per realmente fare grossi balzi in avanti nella pratica del disegno e gestione delle Organizzazioni reali.

Definizione di “Organizzazione”

Se si considerano, tra i tanti possibili punti di vista, uno di matrice sociologica e l’altro di matrice aziendale, considerabili rappresentativi di tutti gli altri, sia nella loro differenza che nella loro complessità, il concetto di organizzazione non appare né banale né tanto meno facile da sintetizzare.

Il concetto di organizzazione in campo sociologico

Secondo la definizione data nel Dizionario di Sociologia della Gremese-Larousse, “Il termine organizzazione definisce sia un oggetto sociale, sia un problema centrale della sociologia dell'azione. L'oggetto sociale è ben noto: le amministrazioni pubbliche, le imprese industriali, commerciali e di servizi come i partiti politici e le associazioni d'ogni sorta — di cui siamo allo stesso tempo salariati, membri e/o militanti e clienti — sono tutte organizzazioni, ossia insiemi umani ordinati e gerarchizzati, miranti ad assicurare la cooperazione e il coordinamento dei propri membri per il raggiungimento di determinati obiettivi”.
E ancora: A seconda degli obiettivi, i meccanismi costrittivi attuati al loro interno e i modi di legittimazione dell'autorità, queste organizzazioni sono molto diverse tra loro ed hanno caratteristiche e modalità di funzionamento dissimili che possono classificarsi in differenti tipologie. Tutte però, al di là di queste differenze, hanno un "problema" in comune: quello di ottenere dai loro membri il minimo di cooperazione indispensabile alla propria sopravvivenza”.
Da questa definizione emerge un alto grado di complessità e il riconoscimento che l’organizzazione “[…] non è un elemento naturale, ma un fatto da spiegare in quanto suppone sempre l'instaurazione e il mantenimento di un minimo di cooperazione tra attori che tuttavia conservano la propria autonomia individuale e i cui interessi non sono necessariamente convergenti”.
L’esplicitazione del punto di vista raggiunge il grado massimo nello stabilire che un’organizzazione non solo ha un carattere non naturale, ma essa deve costruirsi e mantenersi in un contesto nel quale i membri “[…] non sono mai totalmente dipendenti gli uni dagli altri ma conservano sempre un margine di libertà che cercano di salvaguardare, o di ampliare, in quanto essa costituisce comunque la base stessa della loro capacità di azione nell'organizzazione”; si comportano “secondo le visioni locali e parziali, che sono le sole di cui siano capaci e che nessuna razionalità superiore e inglobante fa coincidere spontaneamente”; ricercano il proprio interesse personale entrando in concorrenza e mettendo in crisi gli scopi stessi dell’organizzazione che “[…] hanno una capacità d'integrazione limitata in quanto non godono di esistenza autonoma ma entrano in concorrenza con gli obiettivi che i membri dell'organizzazione sviluppano […]”.
Questi tre aspetti dell’interdipendenza limitata (Crozier, Friedberg 1977), della razionalità limitata (March, Simon 1958) e della legittimità limitata (Silverman 1970) permettono ancora di precisare che “[…] una organizzazione e la propria modalità di funzionamento appaiono non come il prodotto meccanico di un insieme di ingranaggi perfettamente agganciati gli uni agli altri e mossi da una razionalità unica, ma come il risultato di una strutturazione contingente di un campo di acquisizione [e che] una volta istituita, essa sviluppa una dinamica autonoma in quanto le sue caratteristiche inducono effetti non voluti sui comportamenti dei membri dell'organizzazione che a loro volta determinano il mantenimento, se non addirittura l'accentuazione, delle caratteristiche primarie”.

Questa definizione, focalizzata esclusivamente all'ambiente interno del “fenomeno” organizzazione necessità di ulteriori approfondimenti su ed integrazioni al fine di costruire un quadro concettuale più aderente ad una realtà che vede le organizzazioni a diverse scale operare all'interno di un ambiente che può risultare più un astrazione che una realtà chiaramente identificabile: la cosiddetta Società dell’informazione.


Il concetto di organizzazione in campo aziendale

Riflettendo ancora sul concetto di organizzazione è necessario affrontare oltre a quella sociologica anche la dimensione “operativa” e disciplinare per la quale è utile fare riferimento a quanto  pubblicato sul Dizionario della Qualità curato da Piero De Risi che definisce quella delle organizzazioni come: “[…] disciplina e attività finalizzate alla individuazione della struttura organizzativa, del livello di autonomia decisionale di ciascun operatore, nonché del suo potere di influenzare il comportamento degli altri e di una serie di meccanismi tra loro coerenti, che permettano un efficace funzionamento della struttura e l'integrazione tra risorse umane e mezzi tecnici, compatibilmente con la dinamica evolutiva dell'ambiente esterno”.
L’organizzazione non solo è un fenomeno da osservare ma è allo stesso tempo disciplina, attività, struttura. Combinazione di risorse umane, mezzi tecnici e processi interni ed esterni. Dunque la dimensione operativa permette di aprire il unto di vista all'ambiente esterno alle organizzazioni.  Approfondendo viene spiegato come per organizzazione si intenda anche “[…] la scienza che studia i criteri di divisione e specializzazione, orizzontale e verticale del lavoro, di ripartizione di responsabilità e autorità, nonché i meccanismi di collegamento e coordinamento tra le persone che fanno parte di un'azienda o di altri organismi istituiti in vista della realizzazione di uno scopo comune. L'organizzazione consente, in altre parole, di studiare la coordinazione delle varie funzioni, soprattutto con riferimento al capitale umano, e i rapporti tra i vari ruoli all'interno dell'azienda; l'essenza dell'organizzazione è dunque rappresentata da un insieme sinergico e coordinato di ruoli, che consente all'azienda di perseguire il suo fine e gli obiettivi strumentali ad esso (mission). La percezione del problema organizzativo emerge a un certo livello di attività, oltre il quale si ha la necessità di ripartire i compiti tra differenti persone e coordinarne il lavoro in modo da rispettare i criteri di efficienza ed efficacia”.
Appare evidente dunque che è il crescente livello di complessità di un nucleo minimo di persone almeno identificabili come “gruppo di lavoro” che persegue degli scopi (sul livello di conoscenza, e condivisione delgi scopi …) che fa emergere la necessità di affrontare temi di chiaro interesse scientifico che studiati solo da un punto di vista delle scienze economiche o sociali rischia di essere pericolosamente semplificato. Infatti, come noto, scienze economiche e sociali hanno da sempre attinto dai principi della fisica e poi della chimica leggi e costrutti teorici pericolosamente adattati a sistemi che poco hanno a che fare con la meccanica e la termodinamica classica. Bisogna osservare che ancora questa definizione non contempla affatto il concetto di rete come schema di organizzazione dei sistemi viventi.
Nell’emergente teoria dei sistemi viventi e con gli studi di Nicklas Luhmann che per primo ha elaborato il concetto di “autopoiesi sociale” si fa spazio l’idea che è possibile definire una rete sociale come autopoietica a patto che la descrizione dei sistemi sociali umani rimanga completamente all’interno della sfera sociale (Capra, 1996). Luhmann identifica nel processo di comunicazione i processi per eccellenza che contraddistinguono una rete autopoietica sociale.

Evoluzione storica

Ma se facciamo un passo indietro, possiamo ben vedere che sia il concetto di organizzazione che la disciplina organizzativa, della quale Taylor è considerato il padre fondatore, nascono in ambito aziendale. Durante le sue osservazioni Taylor constatò come anche se le moderne fabbriche rappresentavano dei sistemi costruiti con l’obiettivo di massimizzare il profitto con il minimo sforzo fosse invece minima la "scientificità" nell'utilizzo delle risorse nelle unità produttive. Questo fatto gli suggerì la possibilità di applicare criteri scientifici anziché empirici. All’epoca la visione del mondo era condizionata dal meccanicismo classico incarnato nella scienza economica che aveva fondato le proprie teorie e la propria fortuna sul paradigma della meccanica classica. Secondo le teorie dominanti, note sotto il nome di Teoria Economica Classica, il comportamento umano è riconducibile a dei modelli razionali e prevedibili (homo oeconomicus) e i problemi organizzativi (produzione, profitto) possono essere ridotti a delle funzioni da massimizzare: l’obiettivo comune era l'aumento delle quantità prodotte, e in funzione di tale obiettivo era utilizzata la risorsa umana.
Il modello dunque risultava basato su criteri scientifici universali e poteva essere applicato a qualsiasi tipo di azienda indipendentemente dalla dimensione, dal settore di appartenenza o da altre situazioni particolari.
L’organizzazione per Taylor risulta essere un sistema meccanico in equilibrio nel quale gli individui sono ingranaggi del sistema stesso e questa visione non è stata superata neppure quando negli anni venti ci si iniziò ad interrogare sugli aspetti psicologici e sociali del lavoro nelle fabbriche.
L’irrompere a partire dagli anni quaranta nella Cibernetica di Wiener dei concetti di “retroazione”, “autoregolazione” e infine di “auto-organizzazione” nato dall’individuazione della “rete” come schema generale della vita; gli studi elaborati sulle reti binarie di McCullogh e Pitts, il concetto di “sistema aperto” introdotto da Von Bertalanffy, portarono negli anni ’60, il chimico e fisico di origine russa Ilya Prigogine, padre degli studi sulle strutture dissipative, alla intuizione secondo la quale per descrivere sistemi lontani dall’equilibrio è necessario far ricorso a equazioni non lineari.
Egli dimostrò che nelle strutture dissipative l’introduzione di energia dall’esterno favorisce processi di retroazione ad amplificazione che producono nuovo ordine e maggiore complessità mentre dalla cibernetica (che non aveva superato la termodinamica classica) erano sempre stati considerati distruttivi. 
Parallelamente a questi studi Bateson da una parte e Maturana e Varela dall’altra lavoravano sulle modalità cognitive dei sistemi viventi arrivando alla conclusione rivoluzionaria che la mente non è una cosa ma è un processo definibile come cognizione ossia il processo della conoscenza e dell’apprendimento che a sua volta si identifica con il processo stesso della vita. Viene così superato il modello computazionale dell’attività mentale secondo il quale il cervello è uno strumento che elabora l’informazione.
Questa evoluzione ha permesso di superare i postulati della teoria economica classica permettendo un allargamento di prospettiva e ponendo le basi per la sostituzione del modello "meccanico" con l’attuale che considera il funzionamento dell'azienda in modo "organico" (cioè in analogia con gli organismi viventi) e "sistemico" (per cui la risultante dell'attività aziendale è maggiore della somma dei risultati prodotti dalle sue singole parti). La considerazione dell’azienda come sistema aperto, permette di individuare i flussi di relazioni sia con i mercati di sbocco e di acquisizione dei fattori della produzione, quanto con l'ambiente economico, sociale, culturale e politico-legislativo in cui l'unità stessa è inserita.

Il continuo interscambio di risorse e informazioni, ma anche di valori e aspettative tra l'impresa e il suo ambiente, ne condiziona l'assetto organizzativo così come le strategie e la tecnologia in uso. È tuttavia verosimile ritenere l'esistenza di un rapporto inverso, secondo il quale una certa configurazione organizzativa favorirebbe o ostacolerebbe, a seconda dei casi, la realizzazione delle strategie aziendali, l'efficace utilizzo di una certa tecnologia, la percezione di rischi e opportunità ambientali.
Mentre Taylor postulava il concetto di one best way ora si considera quello di one best fit, ossia un approccio che prefigura l'adozione della soluzione organizzativa ritenuta più adatta nel contesto in cui si opera. Attualmente sulla base di una  molteplicità di soluzioni organizzative riconducibili ad alcuni modelli ideali, si ritiene fondamentale prestare attenzione a delicati fattori quali la dinamica ambientale e tecnologica, le peculiarità territoriali e la specifica realtà aziendale interna al fine di contestualizzare metodi e tecniche di intervento organizzativo. Inoltre gli sviluppi della teoria hanno portato a un approfondimento del ruolo del fattore umano e a una considerazione più attenta dei suoi bisogni e delle sue motivazioni. L'individuo comincia ad essere considerato non più come mero prestatore di energia fisica, ma anche in veste di controllore di strumenti; successivamente, divengono preponderanti i compiti di regolazione dei processi produttivi e l'attribuzione di responsabilità decisionali.
L'evoluzione del pensiero organizzativo ha poi condotto verso un bilanciamento tra le diverse prospettive, così come all'elaborazione di principi fondamentalmente basati su un equilibrio tra attenzione alle persone e attenzione ai risultati economici e sociali dell'attività d'impresa. In particolare, la recente introduzione di un'ottica ispirata alla qualità ha messo in evidenza la centralità del fattore umano nel perseguimento della soddisfazione del cliente (customer satisfaction) e nella costruzione del vantaggio competitivo aziendale. La crescente domanda di flessibilità sembra invece potersi soddisfare mediante la progettazione di strutture essenziali e snelle (lean organization) e l'utilizzo di forme reticolari che privilegino lo scambio di informazioni, l'apprendimento diffuso e la condivisione delle conoscenze sviluppate.

Tra le leve organizzative a disposizione del management assume un ruolo di primo piano la gestione delle risorse umane, oggi chiamata a responsabilità che vanno ben oltre i suoi classici contenuti amministrativo-burocratici. Si configura infatti come atti­vità strategica collegata alla progettazione strutturale, orientata alla ricerca della soddisfazione congiunta di obiettivi personali e aziendali, nonché alla valorizzazione completa delle capacità e delle doti personali.
Un ruolo altrettanto importante è occupato dalla struttura orga­nizzativa, che definisce i criteri in funzione dei quali il lavoro è di­viso e coordinato, le responsabilità assegnate e l'autorità conferita a ciascuna posizione. Il funzionamento della struttura è assicurato dai cosiddetti ''meccanismi operativi": il sistema informativo e delle decisioni, il sistema di pianificazione e controllo, i meccani­smi di integrazione e coordinamento. Sono inoltre da considerare lo stile di direzione, intimamente collegato allo sviluppo di ca­pacità di leadership, e la cultura organizzativa, il cui ruolo è andato accen­tuandosi di pari passo con la crisi dei modelli organizzativi rigida­mente imperniati sui principi di gerarchia e autorità. Le variabili organizzative sono caratterizzate da un grado di formalizzazione più o meno elevato, che varia secondo le possibi­lità di applicare modelli standard, di pervenire a una struttura­zione anticipata dei processi aziendali, di misurare i risultati del­l'attività svolta. La formalizzazione della struttura e dei meccani­smi operativi è in genere correlata positivamente con la dimen­sione aziendale e con la volontà di attribuire alle variabili in esa­me carattere di chiarezza e prevedibilità di funzionamento.

Evoluzione dell’organizzazione nella  Pubblica Amministrazione Italiana

Se mettiamo a confronto l’evoluzione del concetto di organizzazione fino ai giorni nostri e gettiamo uno sguardo al modello seguito dalla Publica Amministrazione (PA) in Italia si possono porre almeno due domande: è possibile intravvedere nella riforma della la PA lo stesso percorso evolutivo dal punto di vista organizzativo così come nel campo delle aziende private? È possibile paragonare l’organizzazione della PA a quella delle aziende private? 

Dalla riforma cavouriana lo Stato ha ampliato la propria influenza nel campo dei diritti sociali en­trando in terreni prima di competenza assoluta dell'iniziativa privata registrando via via un allargamento della propria struttura burocratica della pubbli­ca amministrazione. Secondo il paradigma Tayloriano ad una sempre maggiore domanda di erogazione di servizi da parte della società si è provveduto ad accresce le dimensioni e il nu­mero delle strutture già esistenti perpetuando un modello uguale a tutte le scale indipendentemente anche dal contesto locale a discapito della ricerca di più adeguate formule di organizzazioni amministrati­ve anche e soprattutto dal punto di vista qualitativo.
Questo sistema inizia a vacillare quando, gia a partire dagli anni settanta, di fronte agli squili­bri che affliggevano lo Stato sociale e alla richiesta di assicurare un uguale trattamento a tutti i cittadini, l'organizzazione della pubblica amministra­zione dispiega una struttura sempre più complessa e arti­colata senza essere capace di spostarsi dalla vecchia esigenza di rispettare l’aspetto formale dell'atto amministrati­vo (stato di diritto) a quella di  assicurare il soddisfacimento dei bisogni "sociali" del cittadino (stato sociale).
Quindi ad un mutamento degli scopi, o come si direbbe in campo aziendale della mission, sul piano pratico-funzionale l'apparato burocratico della pubblica amministrazione (quale strumento amministrativo atto alla realizzazione dei programmi) è rimasto invariato, radicato sui vecchi principi e incapace di convertire la propria struttura e le proprie funzioni alle nuove finalità imposte dal cambiamento sociale creando un reale problema di ammodernamento organizzativo.


L’esperienza attuale, anche alla luce della forte accelerazione impressa dal programmi di e-government, con il conseguente irrompere dell’uso massiccio delle tecnologie ICT, chiede insistentemente che la pubblica amministrazione muti la propria organizzazione dall’attuale rigido rapporto gerarchico, nel quale le responsabilità si disperdono e diventa difficile l’individuazione di un referente, ad una basata su precisi programmi e obiettivi il cui raggiungimento sia verificabile costantemente, sia dal punto di vista dell'efficienza che dell'efficacia e dove il soddisfacimento dei bisogni del Cittadino sia l’obiettivo fondamentale da raggiungere. 

Questa spinta però apre diversi problemi ben noti sia relativamente alle modalità del cambiamento (miglioramento continuo o per innovazione?) che alla resistenza riscontrabile fisiologicamente nelle organizzazioni dove l’incertezza, la paura di ciò che è diverso, il timore di perdere potere e anche del possibile incremento del carico di lavoro, innescano dinamiche che possono essere affrontate solo con un reale progresso culturale. Infatti ciò che viene chiesto oggi alla PA non è un cambiamento organizzativo che sposti l’attuale baricentro in una “nuova posizione di equilibrio” ma la presa di coscienza che il miglioramento continuo richiede la capacità di affrontare un continuo aumento della complessita con la definizione di nuove configurazioni di ordine del sistema coniugando i principi non solo dell’efficienza, efficacia e trasparenza, ma anche della Qualità dell’azione amministrativa.

Segnali di cambiamento e nuove opportunità

Il tema del cambiamento ed innovazione nell’organizzazione della PA viene affrontato a partire dagli anni ’90 con una serie di "passi legislativi" che ne ridisegnano gli obiettivi, le funzioni e gli schemi ormai invalsi da decenni secondo uno schema di fondo che prevede l’evoluzione dello stato unitario in uno stato federale.
Si pensi alla Legge 142/90 che riforma gli Enti Locali riconoscendogli per la prima volta autonomia statutaria; la Legge 241/90 sul procedimento amministrativo che stabilisce i principi di economicità, trasparenza, efficacia dell’azione amministrativa oltre a definire il sistema degli strumenti di controllo e il diritto di informazione e di accesso ai documenti da parte dei cittadini. Seguono le Leggi Bassanini delle quali la prima, la Legge 59/97, già contiene riferimenti rivoluzionari come la firma digitale con la conseguente equiparazione del documento elettronico con quello cartaceo oltre a disegnare le prime deleghe dal Governo agli EELL; la Legge 127/97 sulla semplificazione dell’attività amministrativa che introduce  i concetti di sussidiarietà, differenziazione e di adeguatezza; la Legge 50/99 (Legge di semplificazione del 1998) sulla delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi e ancora la Legge 265/99 sulla delega della potestà regolamentare. Nel 2000 vede la luce la Legge 150/2000, sulla comunicazione pubblica, che segna la presa di coscienza sull’importanza della comunicazione istituzionale come processo fondamentale dell’attività amministrativa[2]; segue il D.Lgs 267/2000, “Testo Unico degli Enti Locali”, primo atto di semplificazione e delegificazione; la Legge 340/2000 (Legge di semplificazione del 1999). Segue il passaggio importantissimo sul cammino delle riforme con la Legge 3/2001 di riforma Titolo V della costituzione che ha legittimato i principi di sussidiarietà, differenziazione adeguatezza. Sempre nel 2001 viene emanato il D.lgs 165/2001, Testo unico delle norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche che permette di cogliere le specificità locali al fine di contestualizzare le norme di riorganizzazione al fine di rafforzare l’autonomia delle PAL.
A questo cammino di innovazione si affianca quello altrettanto importante di riforma del pubblico impiego. In base alla Legge delega 421/1992 è stato emanato il D.Lgs 29/1993, “Testo Unico sul Pubblico impiego” che innova anche l’accesso al pubblico impiego che affianca al principio sancito dal comma 3 dell’art.97 della Costituzione per il quale si rende necessario il concorso pubblico il dovere dell’Amministrazione locale di emanare un regolamento per le modalità di selezione.

Da queste norme emerge anche la profonda riforma della figura del Dirigente per la quale è stata prevista l’unificazione del ruolo in due fasce - dirigente generale e dirigente – e incarichi  a tempo determinato rispettivamente di 3 e 5 anni  e lavoro per obbiettivi. Già il D.lgs 165/2001 configurava il Dirigente come manager per il quale l’incarico può essere revocato in mancanza di raggiungimento degli obbiettivi. La Legge 145/2002 (legge Frattini) innova ulteriormente la figura del dirigente al quale viene riconosciuta la possibilità di delegare, con provvedimento scritto e per ragioni comprovate, alcune sue funzioni a tempo determinato. L’incarico può essere revocato non solo per mancato raggiungimento degli obbiettivi ma anche per inosservanza delle direttive. L’accesso agli incarichi dirigenziali è regolato per concorso pubblico o anche per corso concorso. E ancora è stata istituita la mobilità tra lavoro pubblico e privato: il dirigente può chiedere di svolgere la propria prestazione fino a cinque anni nel settore privato per acquisire le logiche gestionali delle aziende private da portare poi all’interno dell’amministrazione pubblica. Il trasferimento temporaneo per la sua durata non vale ai fini previdenziali. In quel tempo il dirigente mantiene il suo posto di lavoro essendo pagato parte dallo stato e parte dal privato.
Un altro passo lo compie la Legge 662/1996 che stabilisce la possibilità per i dipendenti pubblici di svolgere attività part-time e lavorare anche per un aziende private senza che l’opera prestata entri in conflitto con l’amministrazione pubblica.
Non si può dimenticare l'attuale progressiva privatizzazione degli enti ed ex aziende a partecipazione statale che segna un ridimensionamento dell’area d'inter­vento, tendenza inversa rispetto a quella già citata degli anni Settanta.

Ciò che ha comportato un’ulteriore scossa nei processi di innovazione è il provvedimento che segna la partenza della prima fase del piano di e-government e cioè il DPCM 14 febbraio 2002 seguito dall’avviso per la selezione di proposte per progetti di e-government del 4 aprile 2002.
La strategia complessiva è contenuta nei documenti noti come “Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell’Informazione nella Legislatura”  e "L'e-government per un federalismo efficiente: una visione condivisa, una realizzazione cooperativa", quest’ultimo condiviso con le Autonomie Locali ed entrambi pubblicati nel giugno 2002.
Al di la dei 10 obiettivi di legislatura, fissati dal Comitato dei Ministri per la Società dell'Informazione, il Ministro per l'Innovazione e le Tecnologie ha fissato con apposite Direttive (febbraio 2002, “Linee Guida in materia di digitalizzazione dell'amministrazione per il 2002”; dicembre 2002, individua per ciascuno dei 10 obiettivi da realizzare nel corso della legislatura, un indicatore di risultato "verificabile" e da raggiungere già nel 2003; dicembre 2003, "Linee guida in materia di digitalizzazione dell'amministrazione per l'anno 2004") gli obiettivi e le linee di intervento gli anni 2002, 2003 e 2004 al fine di stimolare e agevolare il raggiungimento di concreti risultati già nel breve termine, dando così visibilità al processo di riforma in atto e innescando un meccanismo virtuoso con tutte le Amministrazioni.
Sempre nel 2003 con la pubblicazione del documento “L’e-government nelle regioni e negli enti locali: seconda fase di attuazione. Obiettivi, azioni e modalità di attuazione.” è stata inaugurata quella che viene definita la seconda fase dell’e-government.
I settori di intervento prioritario da realizzare nel 2004, come specificati nel documento, sono i seguenti:
q  disponibilità in rete di tutti servizi prioritari per cittadini e imprese;
q  accessibilità dei siti internet della P.A.;
q  utilizzo obbligatorio del protocollo informatico per tutte le amministrazioni assicurando la trasparenza amministrativa;
q  diffusione della posta elettronica e dell'utilizzo dei documenti elettronici (efficienza amministrativa);
q  distribuzione ai dipendenti pubblici di carte elettroniche multiservizi
q  sicurezza ICT: adeguamento delle strutture informatiche almeno ai livelli minimi di sicurezza
q  sviluppo delle competenze: programmi di formazione on line secondo nuove disposizioni normative (prossima pubblicazione di linee guida e vademecum)
Le esperienze positive di alcune Regioni danno segnali incoraggianti sulla bontà della strada seguita ma se da un lato il livello di informatizzazione complessivo con la messa a regime dei progetti di e-government del primo avviso sembra crescere sensibilmente poche notizie si hanno sul reale impatto organizzativo sugli Enti Locali coinvolti nei “134 cantieri di innovazione”.

“Non bastano leggi d’avanguardia, il problema è riuscire ad applicarle”

Nel 1999 Franco Carlini, nel numero monografico 19 di Telèma dal titolo “Burocrazia elettronica – Società più civile”, scriveva: “Il processo di rinnovamento della nostra Pubblica Amministrazione sta cominciando a dare qualche frutto. Ma troppo spesso l’opera di riforma incontra difficoltà impreviste. Ne è un esempio la legge sulla firma digitale: varata nel marzo 1997, sono stati approvati anche tutti i necessari regolamenti di attuazione, eppure fino a oggi non esiste acun contratto stipulato in questo modo”.  Nell’articolo individuava quelli che potevano essere definiti i “motori del cambiamento”: l’essere costretti a recepire le direttive dell’unione Europea che richiedono mutamenti radicali e l’azione consapevole degli ultimi governi succedutisi fino ad allora che avevano impostato un processo capace di offrire alla PA l’opportunità di cambiare in una logica di servizio al cittadino anche se “[…] il legislatore ed i governi si accontentano di fare norme, anche molto avanzate, e, avendole fatte, si illudono di avere fatto il loro dovere e completata l’opera di riforma”. Questa affermazione si allaccia alla questione culturale e per affrontarla sceglie di analizzare le esperienze della PA nell’uso del canale Internet per autorappresentarsi concentrando l’attenzione su tre questioni: identità, chi sono e come mi racconto; interazione, cosa e qual è il modo migliore per comunicarlo; riorganizzazione, la rete mi impone di mutare schemi mentali e modalità operative.
In realtà anche in presenza di leggi d’avanguardia e di contesti culturali fertili per l’attuazione delle stesse inevitabilmente si producono situazioni di rigidità che possono essere superati seguendo l’esempio statunitense dei “laboratori della riorganizzazione” e quello britannico dei “laboratori didattici” nei quali il personale si riunisce per trovare modi nuovi per aggirare le “regole tradizionali” che frenano l’innovazione (Holmes, 2002). Questo inizia a segnare anche il confine netto tra azienda privata e Pubblica Amministrazione: l’azienda privata ha per sua natura una spinta vitale a mutare i propri statuti interni nonché metodi e regole operative al fine di conservarsi e rimanere competitiva nel mercato (vivere o morire), mentre per la PA oltre ad esistere dei vincoli interni ben noti sia di natura legislativa che regolamentare non si può applicare il concetto vivere o morire (anche se le ultime vicende di accorpamento degli istituti scolastici nei piccoli comuni lo smentisce). Se la forza vitale dell’azienda privata è la ricerca del profitto, la PA potrebbe ricercare nell’empowerment della propria tensione etica messa al servizio del cittadino la “spinta vitale” che gli consenta il mutamento culturale di cui ha bisogno. La proiezione della PA  nella “realtà aumentata” (Tagliagambe, 1997) apre nuovi promettenti opportunità che però, per dirla alla maniera di Carlini, “[…] comporta una serie di domande e di interrogazioni eventualmente dolorose su se stessi e sulla propria ragione sociale (quella profonda, non quella scritta negli statuti)”. Il Sito Web non è più la vetrina ma lo specchio dell’organizzazione che lo usa per autorappresentarsi.

Un approccio sistemico per l’innovazione della PA


Come detto in precedenza le attuali teorie più avanzate fanno largo uso della metafora dell’impresa come organismo biologico. Questo significa che in essa (in quanto struttura dissipativa) ripetuti cicli di retroazione e autoamplificazione portano il sistema stesso in uno stato di non equilibrio detto punto di biforcazione. Tale configurazione comporta l'indeterminatezza sullo stato successivo che però può favorire l’emergere di nuove e spontanee forme di ordine che conducono allo sviluppo e all’evoluzione dell’organizzazione.
Al fine di individuare possibili forme di evoluzione della organizzazione della PA si potrebbe prendere in considerazione il modello “Small World” teorizzato da Watts nel 1999 che partendo dai risultati di alcuni modelli matematici definisce le organizzazioni come reti di persone all’interno e tra le quali si individuano due tipologie: le reti ordinate, nelle quali ogni nodo ha lo stesso numero di legami che lo collegano a un  numero ristretto di nodi vicini dando luogo ad una configurazione raggruppata; e le reti casuali o caotiche nelle quali ogni nodo è connesso arbitrariamente ad altri nodi presenti ovunque (Bracco, 2002). I sistemi complessi sono riconoscibili perché situati tra questi due estremi e nei quali la regolarità delle connessioni è interrotta ogni tanto da un certo numero di scorciatoie (shortcuts) come mostrato nella figura.



Il modello degli Small World è un'interessante applicazione di sistema complesso, grazie al quale è possibile rappresentare le dinamiche di interazione all'interno di reti o sistemi di relazioni sociali in cui numerosi elementi sono collegati da relazioni comunicative. La sequenza più o meno uniforme dei legami fra gli elementi ne definisce la regolarità e il raggruppamento (clustering) in insiemi di interazione mentre le deviazione dalla regola di distribuzione tra le relazioni nella rete si manifesta sotto forma di salti comunicativi fra gli elementi, per cui anche nodi lontani fra loro, facenti parte di diversi cluster, possono legarsi mediante una scorciatoia comunicativa (shortcut) come illustrato in figura (Bracco, 2002). I passaggi da A a C in un sistema regolare sono cinque (A   A’   B   B’   B’’   C), si riducono a tre in uno SW (A   A’   B   C) grazie alla scorciatoia che collega B con C, mentre sono due in una rete casuale (A  B   C).


Se ora consideriamo due cluster nei quali possiamo ipotizzare che il raggruppamento fra elementi avvenga per vicinanza fisica (condividere gli stessi spazi o territori), condivisione culturale, intellettuale, di status sociale, per età, genere, affinità personali, ecc. possiamo considerare meno frequente l'interazione con altri cluster diversi. Il legame con altri gruppi non sarà diretto, ma mediato da terzi che intrattengono relazioni con entrambi i cluster “[…] Il modello sembra descrivere efficacemente lo sviluppo dei contatti all’interno di reti di comunicazione e sarebbe interessante approfondire l’analisi sul ruolo delle emozioni nella creazione di “scorciatoie” comunicative che facciano emergere caratteristiche adattative tipiche dei sistemi complessi. Si pensi a un gruppo di lavoro in cui la comunicazione debba essere gestita bilanciando la situazione tra il caso e la regolarità assoluti, tra l’eccessiva flessibilità e la rigidità burocratica. Il modello Small World sarebbe ideale per aumentare l’efficacia dell’organizzazione nella gestione di situazioni complesse e a fronte di rapidi cambiamenti ambientali” (da Bracco, 2001 cit. in Bracco 2002).



Appare chiaro che la possibilità di effettuare questi salti comunicativi aumenta esponenzialmente in presenza di dirigenti/manager capaci di affrontare cambiamenti alimentati da trend irreversibili rimettendosi in discussione per decostruire e ricostruire schemi di riferimento e nuovi modelli (Carmignani, 2004). Questa figura emerge ancor di più quanto maggiormente sarà in grado di manovrare la leva della conoscenza e della creatività promuovendo l’empowerment dei knowledge workers già presenti all’interno dell’organizzazione (Prandstraller, 2004).
Le organizzazioni, incluse quelle non economiche, dovranno quindi sperimentare nuovi modelli organizzativi “ibridi” definendo parallelamente nuove strutture e nuovi compiti per i manager.  Per il resto possiamo tranquillamente aspettarci che il cambiamento si presenterà con caratteristiche inattese” (Carmignani, 2004).


Bibliografia
AA.VV (1994), Dizionario di Sociologia, Gremese Editore, Roma
De Risi P. (2001), Dizionario della Qualità, Il Sole 24 ORE, Milano
Capra F. (2001), La rete della Vita, RCS, Milano (op. orig. (1996), The web of life, Doubleday-Anchor Book, New York)
Bracco F. (2002), "Organizzazioni e sistemi: metafore e riflessioni sulla complessità",  in Ticonzero n°31, www.sdabocconi.it/ticonzero
Fichera G. (2002), "Alcuni modi per descrivere, individuare e applicare la complessità", in Ticonzero n°28,  www.sdabocconi.it/ticonzero
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