GAMING SIMULATION: UNO STRUMENTO PER POTENZIARE RETI SOCIALI AD INVARIANZA DI SCALA. ALCUNE RIFLESSIONI SULLE RICADUTE NELLA PIANIFICAZIONE URBANA





Le aree urbane si confrontano sempre più con un’espansione esponenziale e fenomeni incontrollati di sprawl da cui deriva un rafforzamento del concetto di organizzazione policentrica dello spazio. Questo policentrismo rivela una complessità che denota sempre più la città come sistema di comunicazioni sociali complesse non necessariamente situate o collegate a luoghi fisici. Capacità di ascolto e mediazione sono funzionali alla corretta conduzione di tali processi decisionali inclusivi che permettono attraverso la costruzione di relazioni e la condivisione del sapere, il coinvolgimento e l’accrescimento della capacità istituzionale dei cittadini (#SocialEmpowerment).

Tali processi sono studiati e modellizzati da diverse discipline mentre ancora aperto rimane il dibattito su quali siano le tecniche di aiuto alla decisione e più utili in ambito del progetto e della gestione urbana. La #GiocoSimulazione o #GamingSimulation (GS), come alternativa ai modelli a grande scala rivelatisi incapaci nella pratica di spiegare le complesse dinamiche di modificazione dello spazio, e le reti ad invarianza di scala insieme al modello degli #SmallWorlds, si candidano ad essere il paradigma interpretativo più congeniale per spiegare il funzionamento dei processi comunicativi e dei fenomeni sociali in ambito urbano.

Di seguito propongo alcuni spunti di riflessione sulla possibilità di orientare la progettazione di giochi di simulazione urbana a partire da modelli discreti basati sulle reti ad invarianza di scala. Tale approccio potrebbe rivelarsi particolarmente utile nel favorire e potenziare i legami deboli tra gruppi di persone all’interno di processi di progettazione e gestione dello spazio in contesti urbani in rapida espansione.

1. #GiochiDiSimulazioneUrbana nel XXI° secolo

1.1 Che cosa è la #GiocoSimulazione

I #GiochiDiSimulazioneUrbani (GSU) sono una declinazione della grande famiglia dei #GiochiDiSimulazione (GS). Per coglierne le sfumature e la complessità è senz’altro utile compiere un percorso dal XX al XXI secolo nel quale le tappe sono rappresentate dalle varie definizioni date dai maggiori esperti di gioco/simulazione:
  1. Tecnologia per l’istruzione. “...è chiaro che [i giochi di simulazione] costituiscono una nuova tecnologia per l’istruzione. Una nuova tecnologia è di solito preceduta dalla conoscenza scientifica di base [...] Nel nostro caso la sequenza è invertita: abbiamo una tecnologia funziona, ma non sappiamo veramente perché. Questa una situazione alquanto inusuale delle scienze comportamentali”. (Boocock, Schild, 1968; p.22)
  2. Tecnica di apprendimento. Un mezzo appropriato per portare alla comprensione situazioni complesse accostando la componente quantitativa, tradotta in termini matematici, e la componente qualitativa, tramite la presenza umana (Taylor, 1976);
  3. Un linguaggio del futuro. “...una forma potente di comunicazione, particolarmente adatta a rendere la GESTALT”, (Duke, 1974)
  4. Dispositivi di comunicazione in un accezione più ampia rispetto a quella che li considera come dei dispositivi di tipo pedagogico (Greenblat, 1989; p.18)
  5. Una simulazione di effetti di decisioni prese attraverso l’assunzione di un ruolo sottoposto a regole (Cecchini, 1988; p.656);
  6. Una metodologia di aiuto alla decisione eclettica e multidisciplinare (Duke & Geurts, 2004)
  7. I giochi sono sistemi sociali. Mentre prendono parte un gioco, adulti e bambini danno forma ad un’organizzazione umana. Per questa ragione la teoria delle organizzazione offre un fruttuoso quadro di riferimento per riflettere sulla gaming (Klabbers, 2006; p.38)
  8.  “...un eccellente strumento per assistere un gruppo intento a visualizzare il futuro attraverso lo sforzo di fissare delle politiche o prendere importanti decisioni della sua organizzazione [...] e un metodo incisivo di analisi nel trattare problematiche complesse" (Duke, 2006; p.34)
Questa rassegna di definizioni non può e non vuole essere esaustiva, ma aiuta a capire diverse cose. Innanzitutto, a partire dal decennio successivo da quando si ebbero le prime apparizioni dei GS in letteratura, la ricerca si è impegnata nel tentativo di costruire una teoria attorno ad un fenomeno strano per cui si aveva una tecnologia che funzionava sul campo senza sapere perché. Inoltre si nota una graduale tendenza a considerare la GS come uno strumento sempre più potente con l’avanzare dell’esperienza sul campo e dei risultati delle ricerche.

È sicuramente utile, per fare ancora maggiore chiarezza, dire che i GS non devono essere confusi con la Teoria dei Giochi (Von Neumann, Morgernstern, 1944): i giochi di simulazione sono un metodo, mentre la teoria dei giochi è il corpo teorico dedicato alla soluzione di problemi di decisione. Anche se la conoscenza della Teoria dei Giochi può permettere una valutazione sofisticata e arricchire le possibilità progettuali dei giochi di simulazione non risulta che questi siano stati sviluppati con l’idea di applicare la teoria dei giochi.

I GSU sono una declinazione del concetto generale di GS e pur se alcuni temi di addestramento e formazione del management ad esempio sono vicine da alcuni problemi di gestione urbana non dovrebbero essere confusi con giochi di business (business games). Per quanto riguarda i giochi di scienze politiche (policy game) si può dire che con questi il confine è più sfumato in quanto un GSU può sicuramente fornire elementi importanti al fine di elaborare politiche urbane anche complesse.

Un altro elemento che va considerato è l’impatto che le potenzialità di calcolo dei computer hanno avuto sui GSU. Nonostante il successo di alcuni software di simulazione molto sofisticati come SimCity, Civilization, SimEarth non si dovrebbero confondere i GSU con i videogiochi. Infatti, l’obiettivo dei videogiochi è quello di intrattenere e non di far capire come e perché e quali sono le dinamiche che si generano nell’evoluzione di sistema urbano, anche se ultimamente è possibile notare una sempre crescente letteratura che si interroga sulle funzioni educative dei videogiochi. Sicuramente i videogiochi possono essere un valido riscaldamento per familiarizzare piacevolmente con i problemi della pianificazione. 

Ancora è doveroso dire che un GSU non può essere solo una simulazione computerizzata. Anche se l’intrusione di tale simulazione è ormai pratica consolidata in molti giochi anche storici come Metro/Apex e la loro utilità è indiscussa, solo in alcuni campi come la mobilità e i trasporti le miriadi di applicazione attuali riescono a facilitare alcune decisioni strategiche e a permettere l’implementazione di adeguate politiche. Al contrario di un gioco di simulazione, questi necessitano di una mole di dati elevata e tali dati vanno raccolti ed elaborati. Se l’elaborazione della simulazione è veloce, la fase di raccolta dati è ancora una volta compiuta da umani con tempi lunghi per decisioni che devono essere prese in tempi brevissimi (Rizzi, 2004). 

Se è sicuramente difficile costruire un quadro sintetico e concettuale è possibile però individuare alcuni elementi costitutivi generali che accomunano tutti gli esercizi di GS e dunque quelli di GSU.

1.2 Elementi costitutivi generali della #GiocoSimulazione

Nella pratica pianificatoria da ormai molte decadi si utilizza lo strumento della GS come strumento di analisi e di ricerca. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, l’uso e la produzione di questo strumento ha privilegiato l’area della partecipazione o in generale dei processi di coinvolgimento a qualsiasi livello-informativo, comunicativo, interattivo- di cittadini o gruppi di interesse.

La giocosimulazione ha avuto, ha ed avrà infinite e possibili classificazioni e tassonomie. A prescindere da questo è utile sottolineare quali sono gli elementi che in qualche modo la compongono ed attraverso questo la definiscono: #Ruolo, #Regole, #Modello e #Simulazione.

Il #Ruolo, in genere, ha il significato di funzione e carattere predefinito in un particolare contesto ed è spesso strettamente correlato alla funzione nel senso di caratteristiche o funzioni attese di un individuo o una funzione o parte operativa in una particolare attività o processo. Anche se i ruoli sono dati e strutturati a livello progettuale essi non sono mai comunque rigidamente definiti. Un ruolo dato ovviamente impone restrizioni ai partecipanti e ne limita opzioni ed approcci durante il gioco, ma non ne determina de facto strategie e comportamenti nella #GiocoSimulazione. Talvolta i ruoli sono concepiti in modo da essere esplicitamente modificati o disegnati dai partecipanti. Giocatori con lo stesso ruolo possono perseguire strategie diverse, i loro obiettivi possono variare dagli uni agli altri e modificati anche costantemente durante il gioco. Comunque i comportamenti non sono costretti dai ruoli assegnati e dagli strumenti messi a disposizione.

Nella giocosimulazione le #Regole sono un’insieme di elementi che determina i confini che possono essere posti sotto controllo. Determinano quello che può o non può essere fatto e sono calibrate per limitare l’indefinitezza di una giocosimulazione, in modo che i livelli di conflitto e il grado di competizione possano essere mantenuti sotto controllo. Varie sono le possibilità delle regole: qualitative/quantitative, temporali/spaziali, verbali/gestuali, premianti/punitive, negoziabili/fisse, implicite/esplicite ecc. in tutti i casi le regole dovrebbero riflettere i propositi della giocosimulazione: dichiarati o no.

Si potrebbe affermare che mentre uno #Scenario è elemento indispensabile ed intrinseco al concetto di simulazione, così non è il modello. Il modello è definibile sia come uno schema di punti di riferimento per la riproduzione o l’imitazione di peculiarità proprie di un fenomeno se non il fenomeno stesso, questo schema ne riproduce le caratteristiche essenziali; è in qualche modo il modulo di misura-riferimento della simulazione. Qualora assente siamo in presenza dei giochi metaforici che sono di solito non strutturati, le cui caratteristiche sono le stesse del mondo/caso reale ma assolutamente ipotetiche. In sostanza il modello e la simulazione sono riferiti ad un meccanismo che lega attraverso il rapporto cause/effetti, ruoli e regole per generare possibili risultati relativi ad una data situazione.

La #Simulazione infine è un’attività che proietta differenti situazioni nel tempo e/o spazio, di solito estrapolandole dal mondo reale/attuale in ipotetiche situazioni. La simulazione crea una dinamica potenziale che permette ad uno scenario od un modello di acquisire “vita”. La simulazione si basa sempre su uno scenario che a volte assume la forma di modello ma può essere di volta in volta anche la descrizione di una situazione oppure una narrazione.

Secondo Klabbers (2006; p.30) il termine #Simulazione può essere inteso come un tentativo di risolvere un problema o indagare le conseguenze legate al fare qualcosa attraverso la rappresentazione
del problema o di possibili evoluzioni o eventi anche matematicamente, spesso attraverso l'utilizzo di computers.
Ma si deve aggiungere che una simulazione è anche una attività che proietta differenti situazioni nel tempo e nello spazio di solito trasponendole dal mondo reale all'interno di ipotetiche situazioni tale da creare dinamiche potenziali che permettono ad uno #Scenario o un #Modello di prendere vita.
Le Simulazioni si basano sempre su uno scenario che in alcuni casi può assumere la forma di un #Modello sempre basato sulla descrizione di una situazione o sulla narrazione di essa (Rizzi, 2005)

A fronte di questi elementi comuni la GSU si differenzia non solo per la complessità del tema che affronta ma anche per la sua storia di rapida ascesa e di crisi che a tutt’oggi non sembra trovare una soluzione convincente.



1.3 #GiochiDiSimulazioneUrbana: ascesa e crisi

Tra i primi a progettare ed utilizzare dei giochi di simulazione in ambito urbano si possono citare Nathan Grundstein e Richard Meier. Grundstein nel 1959 con William Kehl disegna il gioco COMMUNITY GAME che prevede la simulazione di una città per un tempo di trent’anni; nello stesso periodo Meier lavora all’idea di progettare e usare giochi di simulazione per esplorare concetti e processi politici, sociali e culturali. Il risultato della ricerca è WILDLIFE, una simulazione che seppur non focalizzata all’ambiente urbano introduceva il concetto di comunità. Però il capostipite dei GSU è senz’altro POGE (Planning Operational Game Experiment) di Francis Hendricks giocato e osservato alla Cornell University fonte di ispirazione per molti progettisti di UGS (Rizzi, 2004).

Nel 1958 Richard Duke sviluppa METROPOLIS che successivamente modificato, migliorato e ribatezzato METRO (Michigan Experimental Teaching and Researching Operation) viene utilizzato nella città di Lansing, nello Stato del Michigan. Grazie al successo ottenuto Duke sviluppa il suo primo progetto complesso di simulazione urbana, METRO/APEX nel quale viene utilizzata la simulazione computerizzata. Fa parte di questo filone anche CLUG (Community Land Use Game) sviluppato da Allan Feldt in collaborazione con il geografo urbano Brian Berry. Si tratta di un gioco basato su un modello di uso del suolo ispirato da WILDLIFE e SQUARE MILE. Quest’ultimo è un gioco che tenta di dare una descrizione semplificata dello sviluppo di una città e della pianificazione urbana. Sempre Feldt, ispirato della versione di Paul Goodman di INTER-NATION giocato in teleconferenza, diede un ulteriore impulso sviluppando una serie di esercizi di simulazione a larga scala adatti ad essere giocati da 50-100 giocatori interagenti attraverso una teleconferenza conosciuti con l’acronimo MAGG (Metropolitan Area Growth Games) (Feldt, 1995).

Le GSU si caratterizzano, in quegli anni, per essere principalmente degli strumenti di addestramento per pianificatori e amministratori, strumenti di apprendimento per studenti, e strumenti di ricerca per scienziati, a prescindere dal grado di complessità dei modelli e delle simulazioni, supportate o meno da computers. In aggiunta, vi era fiducia che potessero essere degli utili strumenti di analisi, previsione e definizione di politiche per pianificazione urbanistica e la progettazione. Infatti, l’esigenza per gli studiosi di pianificazione urbana, era capire il comportamento dei sistemi urbani ormai regolati da un numero di variabili enormemente superiori al passato e il più delle volte sconosciute o non prevedibili e pertanto difficilmente descrivibili o controllabili mediante semplici o singoli algoritmi matematici (Cecchini, 1988). Ma a dispetto di ciò la tendenza diffusa era quella di integrare nella progettazione dei giochi dei modelli a larga scala spesso molto rigidi la cui crisi – a causa del bisogno di un numero elevato di dati, pervicacia nelle proprie idee errate, progettazione complessa, costi alti di realizzazione, eccessiva generalità, grossolanità e meccanicità (Lee, 1973) – si riflettè proprio sul futuro sviluppo ed utilizzo dei GSU. Anche se apparentemente i primi tre punti sembrano superati (Harris, 1994), i modelli a larga scala scontano comunque la pretesa di voler predire comportamenti futuri di sistemi complessi come quelli urbani.

Gia da tempo era chiaro che in natura i sistemi complessi sono estremamente sensibili a piccole variazioni delle condizioni al contorno e che negli ecosistemi urbani una ulteriore dose di complessità va considerata: i comportamenti tenuti dagli agenti, che insieme agli oggetti costituiscono il sistema, non sono sempre del tutto razionali e basati su ragionamenti facilmente ripercorribili, ma sono frutto di una continua interazione che vede le preferenze dei singoli connesse in modo coevolutivo (Allen, 1997).

La crisi dei modelli utilizzati nella pianificazione e la crisi intrinseca della pianificazione urbana che perdeva progressivamente i suoi connotati sociali per avvicinarsi sempre più alle scienze “dure” (Hall, 1988) (Alexander, 1992) hanno accelerato, dunque, un progressivo processo di obsolescenza delle gioco simulazioni urbane facendo emergere ulteriori specifici motivi di crisi di origine epistemologica, metodologica e pratica (Cecchini, Rizzi, 2001).

Per quanto riguarda l’origine epistemologica della crisi, si consideri la tendenza di molti studiosi delle discipline deboli, non dotate di forti statuti interni come la pianificazione urbana, a credere che i metodi e gli strumenti della fisica sperimentati con successo potessero migrare nelle scienze sociali dando luogo ai primi modelli urbani. Inoltre lo scopo delle della pianificazione urbana non è solo descrivere, analizzare ed interpretare lo sviluppo urbano ma soprattutto quello di predire ed escogitare strategie per raggiungere futuri possibili. Dunque importando la complessità algoritmica dei modelli a larga-scala che promettevano la possibilità di ottenere previsioni sul comportamento di sistemi complessi all’interno delle GSU si credeva di poter raggiungere lo scopo.

La crisi di origine metodologico nasce dalla necessità di estendere il dominio dei GSU a scopi predittivi oltreché solo per addestramento ed analisi sollevando non pochi problemi legati alla natura e bontà dei modelli posti alla base dei giochi di simulazione. In particolare il dubbio si pone tra l’uso di modelli urbani puramente algoritmici e modelli ibridi basati a loro volta su sottomodelli meccanici connessi a dei sistemi di attori. In realtà i progettisti di GSU hanno confinato loro stessi ad usare tali giochi nel solo campo dell’addestramento. Inoltre quando si sono aperti all’utilizzo degli stessi per scopi analitici e di previsione, ebbero a confrontarsi con la crisi epistemologica dei paradigma sottostante i modelli a larga-scala.

Le ragioni pratiche che hanno dato origine alla crisi risalgono agli anni ’80. I GSU venivano considerati degli efficaci strumenti di pianificazione alla stregua dei piani elaborati da esperti che venivano considerati dei validi strumenti di governo. Tale convinzione era così radicata da considerare il conflitto come un processo che può essere razionalizzato, compreso e risolto. In realtà di fronte a conflitti di tipo sociale e stagnazione economica si verificò un disequilibrio di tipo regionale e tutte le tecniche ed i metodi della gioco simulazione urbana si rivelarono inefficaci e le amministrazioni pubbliche fermarono l’uso della gioco simulazione urbana (Cecchini, Rizzi, 2001).

Di sicuro dalla prima conferenza della International Simulation And Gaming Association (ISAGA) del 1970 molto è cambiato. Infatti, allora una parte consistente dei membri di ISAGA si occupava di problemi legati all’urbanistica, ambiente e sociologia. Questa tendenza verso la fine degli anni ‘80 si è molto modificata ed i settori dell’educazione e dell’apprendimento accanto alla formazione sono diventati trainanti, quasi un ritorno alle origini o un colpo di spugna rispetto alle evidenti difficoltà e perplessità che la gaming/simulation in ambito urbano mostrava. (Rizzi, 2004)

1.2 Segnali di vitalità e nuove prospettive

Gli indizi di vitalità per i GSU provengono dalla mutazione del quadro generale di riferimento della pianificazione urbana: di fronte agli epocali cambiamenti a livello globale che si traducono nella crescita inesorabile delle aree urbane cambia la prospettiva di osservazione dei fenomeni e si inizia a comprendere l’utilità di affiancare modelli quantitativi e qualitativi; è in atto una riflessione sul ruolo del planner e delle sue capacità; si osserva l’irrompere della dimensione della partecipazione superando le ingenuità del passato. Tali segnali hanno però bisogno di alcune condizioni particolari e profonde quale la necessità di fertilizzazione trasversale tra discipline diverse per poter essere amplificati (Cecchini, Rizzi, 2001)

Le nuove prospettive a loro volta sono date dall’evoluzione dello studio dei grafi complessi trasformandosi negli ultimi anni in una scienza trasversale definibile più propriamente come scienza delle reti: queste nuove conquiste del sapere forniscono spiegazioni e modelli semplici di funzionamento di strutture complesse comprese le reti sociali con il necessario formalismo matematico.

Lo studio delle reti inizia nel 1736 quando Eulero, per risolvere il celeberrimo rompicapo dei ponti di Könisberg, usando strumenti matematici fonda le basi della teoria sui grafi che venne perfezionata anche da Cauchy, Hamilton, Cayley, Kirchhoff e Polya (Biggs et al., 1976). Proprio il modo con il quale i grafi si possono costruire e lo studio delle proprietà della loro struttura si sono rivelati fondamentali per studiare ed interpretare fenomeni complessi come le reti sociali. E lo studio delle reti ha seguito fino ad oggi un cammino su un doppio binario: da una parte i sociologi con le intuizioni e le ricerche empiriche dall’altra i matematici e i fisici che hanno cercato di costruire dei modelli adeguati facendo uso delle proprietà dei grafi.


2. Nuovi paradigmi reticolari: la #ScienzaDelleRetiComplesse

In campo sociologico lo studio delle reti è stato fortemente influenzato dalla teoria dei “sei gradi di separazione” (Milgram, 1967) ma ancora prima da un lavoro di analisi antropologica condotto su un villaggio norvegese (Barnes, 1954) e successivamente dallo studio sulle tipologie di rete sociale: rete ego-centrata, parziale, ego-centrata parziale (Hannerz, 1980) e dalla comparsa del concetto di rete aperta (Kadushin, 2002, 2005); dalla scoperta dell’importanza dei “legami deboli” (Granovetter, 1973, 1983) e dalle “fraction of transitive triplets” (Wasserman, Faust, 1994) (che come vedremo è la stessa grandezza poi definita in forma indipendente ed in linguaggio matematico formale come “clustering” da Watts e Strogatz nel 1998); dalla evidenza che i soggetti facenti parte di una rete sociale non sono tutti uguali ma esistono due tipi di componenti principali: gli “hub” e i “connettori”. I primi sono dei nodi speciali perché intrattengono rapporti di conoscenza e amicizia con un altissimo numero di altri nodi della rete determinando il grado di separazione medio tra tutti gli individui che fanno parte della rete stessa.

In campo fisico e matematico, invece, fino alla pubblicazione su Nature dell’articolo di Watts e Strogatz nel 1998 sulle dinamiche collettive di reti di piccolo mondo (Collective Dynamics of “Small-World” Networks), il comportamento delle reti sociali veniva modellizzato con un grafo di tipo casuale (Salomonoff, Rapoport, 1951) (Erdos, Rényi, 1959). Solo poco più di venti anni fa è stato possibile derivare matematicamente il fatto che in queste reti il grado di distribuzione dei link è di tipo poissoniano addensandosi attorno ad un valore medio (Bollobás, 1981) stante a significare erroneamente che tutti gli individui hanno lo stesso numero di link ossia lo stesso numero di amici e conoscenti. Questo poteva essere vero, in parte, e lo potrebbe essere tutt’oggi in piccole comunità chiuse (Si veda il “modello dell’uomo delle caverne” in Watts, 1999). Ciò che oggi appare chiara è la costante trasformazione sociale che dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri ha dato luogo ad un fenomeno di rimescolamento e di aumento repentino del numero di abitanti delle città sostituendo via via i rapporti basati sui vincoli di clan (Tönnies, 1887) a rapporti basati sullo scambio di merci e servizi (Weber, 1922).

2.1 #SmallWorldNetworks

Duncan Watts, studiando gli oscillatori accoppiati disposti in reticoli regolari, intuì che per comprendere il comportamento di un numero elevato di elementi facenti parte di una rete è necessario comprenderne la struttura delle connessioni; parafrasando Bateson potremmo dire che è necessario spostare lo sguardo su “la struttura che connette”. Può essere considerato intuitivo pensare che i processi di diffusione di informazioni o delle epidemie in una rete sociale sono fortemente influenzati dalla relazione esistente tra struttura e funzione ricoperta da ciascun nodo, tanto più se consideriamo le reti sociali come dei sistemi complessi e dinamici nei quali ogni elemento della rete può subire mutamenti nel tempo. Ma questo modo di pensare era in contrasto con la tendenza dei teorici che eludevano proprio la questione della connettività studiando solo reti regolari o reti casuali non per la loro capacità di spiegare i sistemi reali ma perché per erano più facili da analizzare (Strogatz, 2001).

La modellizzazione matematica del “problema small-world” avvenne verificando la situazione intermedia tra una rete casuale ed una regolare. Per rappresentare l’architettura di una rete intermedia sono necessari due concetti statistici: la lunghezza media del percorso tra due nodi, ossia il grado di separazione, e il clustering o addensamento locale. La lunghezza media del percorso può essere calcolata contando i passi della catena più breve che separa una coppia di nodi, poi si rifa il conto per tutte le altre coppie di nodi e si calcola la media delle lunghezze ottenute. La seconda grandezza fornisce il valore medio di sovrapposizione dei nodi di una rete ed è identificata dalla probabilità che 2 nodi connessi ad un nodo comune siano anche connessi l’uno all’altro: dal punto di vista sociale rappresenta la probabilità che due persone che hanno un amico comune siano a loro volta amici. La lunghezza media del percorso dipende dal modo in cui l’intera rete è connessa fornendo una misura di quanto sia estesa, ma non esiste nessun dato che localmente possa fornire informazioni su di essa. Il clustering, al contrario, fornisce informazioni sulla struttura locale (Watts, Strogatz, 1998) (Strogatz, 2001).

All’inizio della metamorfosi tra una rete casuale ed una regolare le poche connessione casuali esistenti agiscono come scorciatoie tra nodi lontani posti anche a notevole distanza. L’attivazione di queste scorciatoie scatena un potente effetto non lineare per cui questi punti uniscono non solo 2 nodi lontani ma addirittura interi mondi lontani. Inserendo poche scorciatoie si riducono drasticamente le dimensioni del mondo mentre il valore del clustering rimane pressoché costante. Dunque la transizione da una rete casuale ad una rete di piccolo mondo è praticamente impossibile da percepire a livello locale contrariamente a quanto accade nelle reti casuali o totalmente ordinate nelle quali dimensioni e addensamento locale procedono di pari passo. Le reti totalmente casuali sono piccole e hanno un basso clustering; le reti perfettamente regolari (Fig.1) sono grandi e hanno un elevato clustering (Watts, Strogatz, 1998) (Strogatz, 2001).

Figura 1 Grafi regolari: semplice (a) e
totalmente connesso (b) (tratto da Strogatz, 2001)

Figura 2 transizione da un grafo regolare verso
 Un grafo casuale (p= probabilità di link casuali)
(tratto da Watts, Strogatz, 1998)

Le reti intermedie che riescono contemporaneamente ad essere piccole e ad avere un forte addensamento locale furono chiamate reti di piccolo mondo facendo riferimento al campo delle relazioni umane nelle quali pur facendo parte di gruppi ristretti siamo connessi da percorsi straordinariamente brevi a persone apparentemente lontane.

Un altro aspetto è che gli oscillatori accoppiati in una rete di piccolo mondo si sincronizzano più prontamente di quanto non farebbe una tradizionale rete dotata di una struttura regolare, cioè le scorciatoie diventano dei canali di comunicazione ad alta velocità che permettono il rapido diffondersi attraverso l’intera popolazione di mutue influenze. E questo a costi minori rispetto al caso in cui ogni oscillatore venisse collegato direttamente ad ogni altro. Questo fatto ha stimolato l’idea di verificare se l’architettura di piccolo mondo si rivela vantaggiosa in altri scenari nei quali sia necessario che le informazioni fluiscano rapidamente attraverso un sistema complesso e di enormi dimensioni (Watts, 1999).

Nascono immediatamente le seguenti domande: l’architettura di piccolo mondo è vantaggiosa come modello da implementare all’interno di giochi di simulazione urbani? E se si, è possibile semplicemente sostituire il modello all’interno di giochi già esistenti o è necessario sviluppare nuovi requisiti di progettazione e dunque dei giochi di nuova generazione? Per dare non tanto una risposta quanto creare le basi per uno studio più approfondito che permetta di dare delle risposte è necessario considerare ulteriori elementi.

2.2 #Scale-FreeNetworks

Una distribuzione viene definita ad invarianza di scala ossia priva di scala quando essa non è dominata da un’unica scala rappresentativa (al contrario del caso classico, in cui, invece, il valore medio determina una scala caratteristica cioè una dimensione tipica per i membri della popolazione nel suo complesso come può essere l’altezza media degli individui). Questa particolare condizione è descritta da una curva con una coda molto lunga che un certo punto in poi si abbassa molto lentamente. Invece di diminuire con velocità esponenziale, la curva si assottiglia seguendo una legge di potenza con un esponente medio pari a 2,2 (Fig.3). Se da un punto di vista matematico una legge di potenza non ha alcun significato particolare, dal punto di vista fisico le leggi di potenza sono l’indizio della possibile presenza di un sistema che si sta autoorganizzando. Tali relazioni algebriche emergono quando un sistema si trova ad un bivio, in bilico fra l’ordine ed il caos e sono caratteristiche dei frattali (Shroeder ,1991) (Strogatz, 2001) (Barabasi, Bonabeau, 2003).

Figura 3 Architettura e distribuzione in reti casuali
e reti prive di scal. Gli hubs sono evidenziati in nero
(tratto da Barabási, Bonabeu, 2003)

Ciò che sorprende è che reti diversissime fra loro mostrano le stesse tre tendenze:
catene brevi; elevati valori di addensamento locale e distribuzioni dei collegamenti prive di scala:

Negli ultimi cinque anni, i nuovi concetti di reti di piccolo mondo di reti prive di scala hanno innescato l’esplosione di studi empirici volti a dissezionare la struttura delle reti complesse. In tutta una serie di casi diversi, quando si rimuove lo strato epidermico, dall’interno appare sempre la stessa struttura scheletrica. L’ossatura di Internet e il cervello dei primati? Due piccoli mondi. E piccoli mondi sono anche le reti alimentari di specie di predatori e prede, il reticolo di reazioni metaboliche che avvengono nella cellula, i consigli d’amministrazione interconnessi delle 1000 società americane più importanti secondo la classifica pubblicata dalla rivista Fortune, persino la struttura della lingua inglese. E nella maggioranza dei casi, benché non in tutti, queste reti sono anche prive di scala [...]. (Strogatz, 2003, p.327)

Figura 4 Simulazione della crescita di una rete priva si scala da 2 a 11 nodi
(tratto da Barabási, Bonabeu, 2003)

Nei sistemi complessi ogni nodo si distingue non solo per il numero di link ma anche per le sue caratteristiche intrinseche. In riferimento alla Figura 4, può accadere che alcuni nodi pur comparendo in ritardo riescano ad attrarre verso se la maggior parte dei link mentre altri pur arrivando prima riescono ad aggiudicarsene pochi e non diventano degli hub.

Questo ha a che fare con la competizione all’interno delle reti complesse come quelle sociali ed è legato alla capacità di ciascun nodo di stringere più amicizie e conoscenze, come pure l’abilità di un’azienda di attirare e mantenere più clienti rispetto ai concorrenti. Questa caratteristica viene definita “fitness” e fornisce la misura dell’abilità competitiva di ogni nodo. Ogni nuovo nodo quando si deve aggiungere alla rete per connettersi valuta il prodotto tra fitness e connettività di ogni nodo disponibile scegliendo il nodo che in quel momento offre un prodotto più alto. Tra due nodi con eguale numero di link prevale quello con una maggiore fitness mentre a parità della stessa prevale il nodo presente da più tempo.

Questo modello è definito “modello a fitness” e ci da una spiegazione ancora più sofisticata su come evolvono le reti ad invarianza di scala. In base a tale modello comportamentale la topologia delle reti si classifica in due sole categorie: quelle nelle quali la competizione non incide significativamente e quelle nelle quali la competizione porta il nodo più forte a vincere e ad aggiudicarsi tutti i link. Nel primo caso si ha una topologia tipica ad invarianza di scala mentre nel secondo caso la rete evolve verso una topologia a stella (o, come visto precedentemente in termini sociologici, una rete ego-centrata). Però, finchè è la fitness a determinare la forza dei nodi la competizione porta ad una configurazione ad invarianza di scala (Bianconi, Barabási, 2001).

2.3 #Robustezza, #Ridondanza, #Feedback, #Resilienza (4R e una F)

La caratteristica più interessante che distingue le reti a invarianza di scala da quelle casuali è la robustezza dovuta sia alla sua topologia distribuita: eliminando anche un'ampia porzione di nodi la rete non si frantuma perché i percorsi eliminati possono essere sostituiti grazie al feedback unendo i nodi sovrabbondanti. Dunque, al ridondanza delle connessioni permessa dalla topologia distribuita unita alla capacità di feedback mostra un altro grado di resilienza da parte delle reti ad invarianza di scala e tali caratteristiche sono tipiche delle reti presenti in natura. Questa resistenza intrinseca ai cedimenti casuali è controbilanciata da una vulnerabilità agli attacchi portati deliberatamente contro gli hub (Barabasi, Bonabeu, 2003).

2.4 #Contagio e #Diffusione

Watts ha compiuto degli studi empirici per verificare se la struttura di piccolo mondo può portare evidenti benefici se applicata a sistemi dinamici soprattutto alla luce della possibilità di favorire la diffusione delle informazioni attraverso le scorciatoie comunicative (shortcuts) con modalità similari al contagio di una malattia a partire da un germe iniziale.

La prima verifica è stata fatta sulla capacità di creare un comportamento cooperativo in un automa cellulare molto semplice dando esiti positivi. Il secondo esperimento è stato condotto utilizzando la teoria dei giochi osservando gli effetti della variazione della topologia di accoppiamento in due casi: nel primo per valutare l’emergere del comportamento cooperativo all’interno di una popolazione omogenea nella quale i suoi elementi sono capaci sia di cooperare che di opporsi a vicenda; nel secondo per valutare l’evoluzione del comportamento cooperativo in una popolazione eterogenea che si evolve in una serie di generazioni e nella quale le regole più soddisfacenti passano preferenzialmente alle generazioni future. Per simulare le condizioni della vita reale, l’esperimento è stato condotto seguendo l’esperienza di Axelrod dei primi anni ’80, reiterando più volte il Dilemma del Prigioniero applicando la strategia “Tit-for-Tat” (in italiano può essere tradotta con il cosiddetto pan-per-focaccia) e la strategia “chi vince resta-chi perde se ne va”. Nel primo caso i giocatori adoperano un comportamento intrinsecamente cooperativo nel senso che ogni giocatore ripete il comportamento che l’altro giocatore ha tenuto nel turno precedente. Nel secondo caso il comportamento è non cooperativo ed il singolo giocatore cambia il suo atteggiamento nel turno successivo solo se ha perso in quello precedente (Watts, 1999).

Gli esiti, peraltro confermati da studi successivi (Cassar, 2007), mostrano che nel primo caso l’emergere del comportamento cooperativo in un grafo del tipo small-world richiede la presenza iniziale di una popolazione che sia piuttosto incline a cooperare dal primo momento ed in questo caso tale comportamento si diffonde rapidamente; altrimenti, se una popolazione è solo marginalmente incline a cooperare, la cooperazione può emergere, ma lentamente. Nel secondo caso, in cui un singolo soggetto cooperatore viene introdotto in un gruppo di competitivi, si assiste ad un tentativo di condizionamento da parte dei vicini. Se questa azione è servita a modificare il comportamento del cooperatore solitario finendo per assumere un comportamento competitivo tutti i sui vicini continueranno a mantenere il proprio comportamento e dunque a competere. Tuttavia può accadere che alcuni dei vicini decidono di comportarsi coooperativamente pur non ottenendo benefici tangibili da ciò. Questo tipo di strategia porta ad una situazione incerta che raggiunge uno stato stabile solo asintoticamente in lungo periodo (Watts, 1999).

2.5 #PuntiCritici (#TippingPoints)

Gli studi di epidemiologia, le teorie sulla diffusione delle malattie, oltre a chi studia gli effetti della diffusione delle informazioni e delle mode passeggere in campo sociologico e del marketing, sembrano concordare sul fatto che superata una soglia critica si verifica il “contagio”. Le reti ad invarianza di scala, come descritto nel 2001 da Pastor-Satorras e Vespignani, hanno una soglia critica pari a zero. Cioè tutti i fenomeni anche quelli più contagiosi si diffondono e persistono nel sistema anche a distanza di lungo tempo. Questo fenomeno può essere meglio compreso se si considera che nel momento in cui un hub contrae l’”infezione” da uno dei nodi al quale è collegato esso diffonderà il contagio con estrema velocità (Barabási, Bonabeu, 2003).

Le ricerche più recenti sulle mode passeggere si basano su un modello classico elaborato negli anni settanta dal sociologo Mark Granovetter sebbene già dal 1953 Rapoport si occupava della diffusione delle informazioni in popolazioni aventi determinate caratteristiche sociostrutturali (Rapoport, 1953). Tale modello comprendeva una folla ipotetica di 100 persone all’interno della quale potrebbe scatenarsi una sommossa. L’assunto di base del modello è che la decisione di ciascuno di aderire o no alla sommossa è una variabile dipendente dalla scelta di tutti gli altri e che la stessa è distribuita su tutta la popolazione con una determinata curva di probabilità. All’interno di tale folla è possibile individuare i cosiddetti istigatori e coloro che, in base ad una soglia personale, possono essere trascinati nella rivolta. Le diverse varianti di tale modello permettono di dire che l’imprevedibilità di una folla è legata alle dinamiche interne determinate dalla particolare composizione della folla stessa (Granovetter, 1978).

Recenti studi di Watts prendono i considerazione un caso più realistico nel quale all’interno di un gruppo allargato le scelte di un individuo sono influenzate da un sottoinsieme di amici e colleghi di lavoro e tale influenza è esercitata attraverso forme di interazione quali il passaparola. Ciò che interessa maggiormente in questo modello è che emerge un andamento generale per cui si manifestano due transizioni di fase in corrispondenza di altrettanti “punti critici”. Quando il modello raggiunge il primo punto critico i vari gruppi tendono a riunirsi formando una maglia nella quale la veloce trasmissione delle informazioni è possibile facilitando l’isorgere di vere e proprie epidemie di innovazione. Aumentando la connessione tra i nodi il fenomeno si amplifica fino ad arrivare al secondo punto critico nel quale si verifica come un effetto di diluizione e di perdita di intensità del fenomeno. Da questo punto in poi il sistema diventa estremamente imprevedibile ma stabile rispetto ai cambiamenti. Non è detto che non si possano verificare delle nuove epidemie di innovazione: esse saranno più rare, ma capaci di raggiungere notevoli dimensioni (Watts, 2002).

Ancora una volta un concetto come quello di “punto critico”, così come quello di “clustering” viene definito e studiato in sociologia per poi trovare conferma ed evidenza modellistica e matematica all’interno dello studio delle reti complesse. Infatti il concetto di punto critico venne utilizzato per la prima volta da due autori che si occupavano di studiare il fenomeno della fuga repentina dei bianchi da quei quartieri che si verificava quando un determinato numero di abitanti di colore veniva raggiunto. Questo numero era appunto il numero critico. Il primo, Morton Grodzins, lo fece nel 1957, mentre il secondo, Thomas Shelling lo fece nel 1971 (Grodzins, 1957; Shelling, 197; Gladwell, 2000)


3. #PianificazioneUrbana nel XXI° Secolo e #GiochiSimulazioneUrbana

L’attuale campo d’azione per un pianificatore è rappresentato da una realtà nella quale ad alcune promettenti esperienze di rigenerazione urbana le dinamiche in atto a livello globale mostrano che le aree urbane sono sempre più alle prese con problemi di squilibrio sociale dettato da impetuosi fenomeni di espansione (Charlesworth, 2005; Friedmann, 2005; Gregotti, 2005; Perlman, 2005) che si prestano ad essere rappresentati attraverso un modello di organizzazione dello spazio di tipo reticolare apparentemente non gerarchico (Nichols, 2005).

Tale strutturazione spaziale rappresenta il teatro nel quale le dinamiche economiche e sociali di scala sovra locale incidono fortemente su quelle locali contribuendo a descrivere un’immagine della città come sistema di comunicazioni sociali complesse (Meier, 1969)

Nelle aree a maggiore espansione e concentrazione di popolazione tale sistema di comunicazioni poggia sempre più sulle infrastrutture di telecomunicazioni che permettono di accelerare i processi di produzione, scambio ed elaborazione delle informazioni e sempre meno sui tradizionali rapporti di vicinato: le comunicazioni faccia a faccia lasciano spazio a nuove modalità di interazione on-line in forma tradizionale (siti web, e-mail, chat, forum) o arricchita dalla disponibilità di ambienti virtuali tridimensionali come i Mondi-Attivi. Ciò, se da un lato mostra un indebolimento dei rapporti di vicinato dall’altro allarga le prospettive e modifica i tempi e gli spazi dell’abitare e la loro percezione.

Le condizioni con le quali il progetto urbano si confronta, vecchie e nuove, rendono impossibile la descrizione della città attraverso leggi per le quali esista una proporzionalità tra causa ed effetto e mettono precisi limiti all’uso delle tecniche predittive di tipo quantitativo: composizione culturale e socio-economica delle società locali sempre più eterogenea, accrescere della criticità delle condizioni ambientali determinate in larga parte da modelli insediativi e di vita che contribuiscono ad aumentare la complessità, indeterminatezza ed instabilità nel tempo, sperimentazione di rapporti sociali svincolati dal contesto spaziale (Giddens, 1984).

3.1 Il concetto di rete nella Sociologia e nella Pianificazione Urbana: due esempi

A diverse scale le reti sono entrate a far parte del vocabolario comune tra diverse discipline. In particolare, quando ci si riferisce alla città emerge sempre più l’immagine della rete delle città globali con la loro alta capacità di sfuggire ai vincoli dei confini nazionali seguendo le leggi dell’economia globale (Sassen, 2000, 2006).

Se si considera la città come lo spazio di vita di una società locale organizzata, il progetto è considerabile come un’attività che porta a nuove configurazioni dello spazio fisico, attraverso un processo comunicativo ed interattivo che si esplica all’interno di un modello di interazione multi-agente nel quale la qualità e desiderabilità del progetto aumentano con il migliorare del comportamento organizzativo dell’intero sistema. Nelle organizzazioni complesse si assume spesso la metafora della rete come paradigma comunicativo e di interazione, ma una rete per essere considerata tale e per funzionare ha bisogno che i suoi nodi (che possono essere costituiti anche da gruppi di individui) siano capaci di interagire tra loro e di portare piccole innovazioni che nel lungo periodo riescono a garantire la capacità di risposta del sistema alle sollecitazioni esterne. Perciò se la qualità della rete è data dalla qualità e dalla consapevolezza che i propri nodi manifestano nel comportamento organizzativo emerge la questione di come migliorare la capacità dei nodi di interagire fra loro.

In base a quanto detto nel paragrafo 2, si apre oggi la possibilità di utilizzare le nuove conoscenze relative ai modelli e ai comportamenti emergenti legati alle caratteristiche topologiche delle reti di persone per migliorare le performance ed i risultati della pianificazione urbana. Un punto di partenza per affrontare l’argomento può essere quello di analizzare due casi avanzati di utilizzo delle reti dal punto di vista teorico e pratico sia nella sociologia che nella pianificazione urbana. Il primo caso racconta l’esperienza del Master Plan per lo strijp Philips localizzato nella città di Eindhoven, in Olanda, basata sulla concezione di “metropoli genetica” (Branzi, 2006); il secondo illustra un modello di interazione di matrice sociologica di recente elaborazione chiamato modello “spazio-partecipazione” (Ciaffi, Mela, 2006).

La #MetropoliGenetica viene definita da Branzi come:

... la metropoli dove le leggi biologiche della società si liberano, raggiungono il loro livello massimo di liquefazione, invadendo pienamente un'infrastruttura e dilagando fuori da ogni possibile forma progettata di contenimento, [e ancora] la visione di un territorio dentro il quale l'architettura non svolge più nessuna definizione di segmentazione permanente dello spazio, ma diventa il teatro di una vasta attività di modificazione elastica (cioè reversibili) dal basso delle infrastrutture, dei servizi, ed è sotto-sistemi metropolitani”. (Branzi, 2006; pag. 24)

Questa idea di metropoli dell’era informatica coniuga tecnologia e “territorio dell’umano” rappresentando lo spazio di relazione nel quale “connettere il proprio Dna con quello degli affari, diffondendo il proprio gene in una rete fittissima di relazioni parentali e imprenditoriali” e fa riferimento all’etica delle reti informatiche che “ha insegnato l'esistenza di grandi vantaggi forniti dell'interconnessione sociale”. (Branzi, 2006; pag. 24)

Secondo questi convincimenti il meta-progetto elaborato per la dismissione dello strijp Philips (982.000 m²) prevede un modello di urbanizzazione debole. Come noto la città di Eindhoven è stata fino dall'inizio del secolo la sede storica dell'industria Philips che ha tracciato un solco nella storia dell’innovazione tecnologica. Infatti in questa città sono stati sviluppati e prodotti industrialmente la prima lampadina elettrica, il primo CD-ROM, il primo walkman. Dagli inizi degli anni ’70 oltre il 90% della popolazione di Eindhoven lavorava negli stabilimenti Philips fino al veloce declino che ha visto in tutti i distretti europei la delocalizzazione produttiva. Questa vasta area è stata proposta sul mercato europeo come città ideale per diventare culla di quelle micro-iniziative imprenditoriali legate la creatività tecnologica artistica, progettuale di massa, che richiede, per realizzarsi, la possibilità di attivazione di intensi spazi relazionali. Questo è creduto possibile grazie alla progettazione di un mix urbano nel quale il territorio agricolo produttivo viene reso permeabile sia agli attraversamenti che all’insediamento di laboratori di ricerca, residenze, strutture per il commercio ed il tempo libero in grado di funzionare sinergicamente e mutare funzioni e dimensioni a seconda della richiesta del territorio.

Il modello di interazione che sottende questo meta-progetto è basato sulla trasformazione di una struttura reticolare “incompleta” in una più ricca di bio-diversità.

Figura 5 Eindhoven come rete incompleta
(tratto da Branzi, 2006; pag.41)


Figura 6 Eindhoven come rete completa che attrae
le giovani generazioni (tratto da Branzi, 2006; pag.41)

In questo caso la rete, la topologia ed il suo comportamento al futuro viene rappresentata dall’autore in forma estremamente complessa in quanto i nodi rappresentano dei luoghi capaci di attrarre le giovani generazioni, ma nessun discorso topologico viene affrontato anche se in generale emerge il tentativo di lavorare sulla resilienza del sistema complesso.

Il secondo caso offre un modello concettuale che si colloca in una emergente prospettiva di ricerca definita come sociologia spazialista che:

“[...] pur nella [sua] evidente eterogeneicità, [affronta] di petto un nodo teorico che nella storia della sociologia urbana, è stato spesso lasciato sullo sfondo o, comunque, non risolto: quello del rapporto tra l’azione e i sistemi sociali da un lato, e lo spazio (o, meglio ancora, la dimesione spazio-temporale), dall’altro lato” (Mela, 2006, p.34). 

Il modello “spazio-partecipazione”, nasce grazie all’osservazione incrociata di alcuni elementi ricorrenti riscontrabili in esperienze di progettazione e rigenerazione urbana nel contesto europeo e mette in evidenza come le azioni principali attivabili all’interno di una società sono risultato della declinazione del verbo partecipare in altre 4 categorie di azioni: comunicare, animare, consultare e potenziare i poteri di rappresentazione e la capacità di fare dei cittadini (empowerment) (Ciaffi, Mela, 2006).

Tali categorie di azioni presentano confini sfumati e si potenziano a vicenda in uno spazio di relazione a cerchi concentrici proprio della letteratura della psicologia di comunità che vede nel cerchio più interno lo spazio dell’intimità familiare (o spazio privato) attorniato dal cerchio della parentela e delle amicizie (spazio pubblico locale) che a sua volta è attorniato da un anello più esterno che rappresenta il “resto del mondo” (spazio pubblico sovra-locale).

Questi cerchi concentrici si configurano come delle vere e proprie “nicchie ecologiche” nelle quali la categoria del locale si affranca dal vincolo di prossimità. Dunque, rispetto a quanto detto prima, al cerchio più interno definito come spazio privato corrisponde la nicchia ecologica interna che comprende i luoghi dove si svolge la vita intima dell’individuo (la propria casa, per esempio) ma vengono incluse anche strutture residenziali e semiresidenziali per adulti come comunità di assistenza o di accoglienza. Al secondo cerchio, lo spazio pubblico locale, corrisponde la nicchia ecologica intermedia che comprende i luoghi pubblici percepiti come familiari che vengono frequentati regolarmente e che possono essere anche distanti dalla propria abitazione. Al terzo cerchio, lo spazio pubblico sovralocale, corrisponde la nicchia ecologica esterna che comprende quegli spazi pubblici conosciuti bene, marginalmente o addirittura sconosciuti e che comunque non sono percepiti come propri o familiari. (Ciaffi, Mela, 2006).

L’importanza di questo modello risiede nel fatto che mettendo in relazione azione, sistemi sociali e spazio di vita presenta evidenti punti di connessione con il concetto di città genetica nel suo tentativo di mettere insieme principi di interazione sociale, modificazione dello spazio ed ecologia riconoscendo la città come sistema di scambio e relazione, come “struttura che connette”. Anche in questo secondo caso però non emergono riflessioni operative su come attivare i processi intervenendo sulle componenti strutturali della rete sociale.

Pur essendo entrambi gli esempi proposti recentemente e ad oltre 5 anni dalla pubblicazione dalle fertili ricerche di Watts, Strogatz e Barabási, nessun accenno esplicito viene fatto nei due lavori a quanto riportato nel paragrafo 2 del presente articolo ma solo riferimenti alle rispettive tradizioni disciplinari.

3.2 Perché i #GiochiDiSimulazione Urbana?

All’interno dei GSU confluiscono apporti provenienti dalla sociologia, dall’economia, dalla pianificazione, ed in questo mix è di estrema importanza sviluppare linguaggi e concetti comuni senza barriere epistemologiche. Da attività a forte contenuto tecnico, il progetto dello spazio urbano sembra costituirsi sempre più come pratica comunicativa, interattiva e collaborativa (Healey, 1997) che richiede capacità di esplorazione, comprensione e rappresentazione della realtà a diversi livelli, e di saper comunicare ed interagire con i vari attori coinvolti. Questa esigenza di rinnovamento degli strumenti utili al progetto dà inoltre l’opportunità di coniugare pragmatismo e capacità visionarie mediante pratiche di tipo deliberativo con le quali creare opportunità, tutelare l’interesse pubblico e gestire efficacemente il conflitto (Forrester, 1999). 

In questo quadro forse ancora troppo complesso due figure sembrano essere di aiuto per costruire una base più solida per un discorso coerente: John Friedman e Manuel Castells.

Friedman ci ricorda che contrariamente ai modelli di tipo razionale il mondo è reale ed è conoscibile attraverso una forma di indagine empatica, che è un modo di interrogare una realtà sociale dotata delle capacità di fornire risposte. La nuova epistemologia trasforma le indagini sia scientifiche che pianificatorie in un processo dialogico che procede sulla base di una conoscenza tacita e disarticolata utilizzando un linguaggio capace di esprimere realtà soggettive e integrando scienze umane, sociali e comportamentali (Friedmann, 1993; p. 528).

A oltre dieci anni di distanza le trasformazioni sociali che la penetrazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione mettono in atto mutano ulteriormente il quadro rispetto al quale Friedman faceva le sue riflessioni. Il primo elemento che Castells mette in risalto è come

...la trasformazione dello spazio va inserita nel più ampio contesto di una trasformazione sociale complessiva: lo spazio non è un riflesso della società ma un’espressione di essa. La nuova città nasce conseguentemente alla creazione di una nuova struttura sociale, la società delle reti, caratteristica dell'Era dell'Informazione”. (Castells, 2004; p.50 ITA) 

In piena era della “società informazionale” e dopo la pubblicazione della famosa trilogia, Castells si interroga sullo spazio fisico e lo spazio dei flussi come materiali preziosi per l’urbanistica del XXI secolo. In particolare:

lo spazio dei flussi stabilisce un collegamento elettronico tra luoghi fisicamente separati, creando un network interattivo di relazioni tra attività e individui a prescindere dallo specifico contesto di riferimento. Lo spazio fisico, invece organizza le esperienze nei limiti della collocazione geografica” (Castells, 2004; p.57) 

Questa trasformazione e potenziamento delle dimensioni esperenziali si riflette con forza sulla vita quotidiana specialmente nelle metropoli nelle quali aumenta costantemente la pervasività dei mezzi di comunicazione elettronica non solo intesi come apparati, ma come sistema tecnologico integrato basato sulla comunicazione orizzontale via Internet. Tutto ciò non fa altro che accelerare il processo di frammentazione e di autoreferenzialità nella comunicazione. Allora l’#Interazione assume oggi il ruolo di tema urbano dominante e si manifesta su tre livelli: livello fisico (faccia a faccia, comunità reali); livello della comunicazione sociale (cittadini e amministrazioni locali); livello della comunicazione elettronica intesa come nuova forma di socialità (le comunità reali vengono sostituite dalle comunità virtuali) (Castells, 2004).

Rispetto a ciò Castells riconosce inoltre che:

non esiste ancora una vera e propria teoria, perché Internet è tuttora gli inizi come pratica sociale ad ampio raggio. Ma possiamo riaffermare che la socialità on-line è una socialità specifica, e non un sottoprodotto di quella reale, e che la collocazione geografica contribuisce, spesso con esiti insoliti, alla configurazione dei network di comunicazione elettronica” (Castells, 2004, p.57) 

Ma se l’interazione è il tema dominante è necessario dare uno sguardo al dibattito sull’efficacia delle tecniche di comunicazione e interazione entrate nell’uso invalso e che è esplorabile nell’ampia letteratura in proposito. Nella Pianificazione Urbana, come del resto in altri settori, tali tecniche vengono utilizzate principalmente come strumenti per “sondare” saperi diversi al fine di pervenire ad un allargamento complessivo della base di conoscenza necessaria per svolgere l’attività di progettazione. Tali tecniche sono classificabili come:

  1. tecniche tipiche del sapere tecnico come i future studies (environmental scannings, matrici d’impatto incrociato, metodo Delphi, previsioni e strategic management, automi cellulari e GIS); 
  2. tecniche a forte sovrapposizione tra il sapere tecnico e il sapere comune (o contestuale) (studi di scenario come lo European Awareness Scenario Workshop, Community Visioning Processes ed altri basati sulla combinazione di brainstorming con numero crescente di partecipanti quali metaplan e focus group,); 
  3. tecniche e approcci di facilitazione di nuova generazione (Open Space Technology e Appreciative Inquiry).

I limiti di tali tecniche sono riconosciuti sia da autori di matrice anglosassone (Sanoff, 2000) che di scuola europea ed in particolare italiana (Bobbio, 1996): sono rari i casi in cui l’uso di tali strumenti rende permanenti le capacità di interazione e partecipazione della società locale alla soluzione delle problematiche connesse con la vita organizzata.

Si impone quindi una necessità non tanto di rigenerazione delle tecniche quanto di innovazione delle metodologie e degli approcci che caratterizzano la pratica progettuale andando ad individuare tra le tecniche di comunicazione e di interazione quali effettivamente possono essere integrate in metodologie di progetto che vedono già oggi e sempre più nel futuro prossimo i rapporti umani mediati dalle tecnologie dell’informazione e della conoscenza.

Tra queste la #GamingSimulation sembra avere significative potenzialità per la sua posizione a cavallo tra le tecniche di comunicazione e di simulazione.

La città è da sempre il luogo dello scambio: appare infatti essere composta molto più da idee che da mattoni ed è sempre più contemporaneamente spazio dei luoghi e dei flussi. Flussi significa flussi di informazioni e comunicazione ed ecco che negli ultimi anni sono apparsi una serie di giochi in cui la città è la scacchiera su cui giocare ed interagire. Non si intende qui le varie attività di artisti che utilizzano l’ambiente urbano per le loro performance od happening ma giochi che, utilizzando l’ampia gamma delle tecnologie della comunicazione: cellulari, palmari, computer, radio, mettono in campo interattività estremamente dinamiche.

La città diventa lo spazio in cui perdersi ed incontrarsi: CAN YOU SEE ME NOW?, UNCLE ROY, ALL AROUND YOU e I LIKE FRANK IN ADELAIDE di Blast Theory e CITITAG di Kmi della Open University; il labirinto virtuale di PAC-MAN, indimenticabile videogioco, diventa reale in PACMANHATTAN di NYU’s Interactive Telecommunication graduate program; MOGI di NewtGames dove la scacchiera fisica interagisce in continuità con quella digitale.

Queste esperienze ridefiniscono lo spazio urbano come spazio di flussi e di scambi introducendo il livello virtuale: i giocatori di UNCLE ROY interagiscono attraverso cellulari con altri giocatori questi possono essere fisicamente nella stessa area di quartiere o di città, oppure intervenire dal proprio computer a casa. Ma i livelli di interscambio seguono sequenze non lineari creando scenari che dagli autori sono definiti “di teatro”. Allo stesso tempo i giocatori di CITITAG sono le cavie di un esperimento tecno-sociale poiché gli autori vogliono esaminare quali sono le potenzialità di comportamenti sociali spontanei ed interazioni di gruppo in spazi pubblici utilizzando tecnologie quali i palmari ed i cellulari. I giocatori divisi in due squadre- rossa e verde- tentano di imprigionare quanti più avversari possibile, giocano però in uno spazio fisico definito: una piazza o un prato o un giardino pubblico. Una delle esperienze meno accademiche e più ludiche è GUNSLINGERS un gioco di ruolo. Leggendo dalla pubblicità si scopre come i giocatori possono avere l’esperienza tradizionale dei giochi di ruolo, calandosi in uno scenario avventuroso ed affrontando ed ingaggiando combattimenti ma lo scenario reale in cui farlo è l’area metropolitana di Singapore.

La ludificazione raggiunge alti livelli in PACMANHATTAN e MOGI. In PACMANHATTAN il videogioco PacMan, popolare negli anni ’80, diventa un gioco urbano a grande scala e viene utilizzata la griglia urbana di New York come tavoliere, l’obiettivo dichiarato è di sperimentare cosa possa accadere nel passaggio dal “piccolo mondo” di console, televisori e computer, al “grande mondo” della città. La squadra è composta da 5 giocatori che fisicamente competono usando la mappa fisica di New York come la scacchiera di PacMan. In MOGI i giocatori, che sono una comunità composta da gruppi che si costituiscono spontaneamente, devono collezionare una serie di elementi muovendosi nell’ambiente urbano, questi elementi sono poi oggetto di negoziazione e scambio con altri giocatori sia attraverso i cellulari o palmari che i computer, i partecipanti possono attivare anche alleanze con altri giocatori che possono aiutarli a raccogliere gli elementi necessari.

Alla fine lo spazio urbano ridiventa lo spazio in cui flussi e luoghi dialogano. Permettendo forse quella ricostruzione del rapporto funzione e significato così fondamentale per l’esistenza della comunità e della città.

4. Conclusioni: Computers, #NICT, #RetiSociali, #PianificazioneUrbana e #GSU

La realtà e la consistenza delle esperienze di integrazione tra #Gioco, #NICT e #SpazioUrbano prima descritte mostrano un generale approccio al divertimento legato all’utilizzo della città come playground per le sessioni di gioco promuovendo l’esplorazione dello spazio urbano a vera e propria attività che coinvolge a livello esperenziale e percettivo-sensoriale. Ciononostante, ancora molto resta da fare soprattutto a livello di maturazione teorica nel campo della #PianificazioneUrbana. Infatti, le crisi dei sistemi urbani sono legati principalmente alle crisi economiche e sociali legate ad un mondo in veloce e continua trasformazione e la modalità tradizionale di affrontare il progetto della città come semplice trasformazione dello spazio fisico non sembra avere possibilità di rigenerazione se si fa affidamento solo ad un tentativo di rigenerazione delle tecniche di interazione tradizionali.

Quanto esposto nel paragrafo 2 sull’attuale sviluppo delle conoscenze sulle reti in generale e sulle reti sociali in particolare rappresenta un enorme stimolo ad aprofondire la conoscenza e lo studio di tale fenomeno e delle sue proprietà soprattutto alla luce della possibilità di favorire comportamenti di tipo cooperativo in processi di pianificazione urbana sempre più spesso caratterizzati da conflitti sia latenti che manifesti.

Risulta certamente affascinate la possibilità di considerare il concetto di comportamento collaborativo in questi contesti alla stregua di un germe da veicolare e diffondere velocemente: una sorta di contagio che aiuta a riconoscere che seppur cooperare costi maggiore fatica personale, il sistema, inteso come società e come esito della modificazione dello spazio fisico, ne può trarre maggiore beneficio.

Per lavorare su questo concetto la proposta operativa è di elaborare criteri e nuovi requisiti per la progettazione e realizzazione di giochi di simulazione urbani di nuova concezione sviluppati su dei modelli di reti sociali di piccolo mondo e ad invarianza di scala.

In particolare sono oggetto di studio e di sviluppo alcuni requisiti di base per questo nuovo tipo di gioco-simulazione. Ciò che si può dire da subito è che l’approccio utilizzato è meno ingegneristico ma più un approccio “debole” che definiamo “bricoleur”. Tale approccio porta con se tutti quei micro-processi cognitivi che la pianificazione di tipo ingegneristico tende ad oscurare, e facilita il tentativo di rivelare quella struttura che Bateson chiama “la struttura che connette” che certo può essere assimilata alle reti di nodi e relazioni di cui si è trattato precedentemente, e che in definitiva, per noi, rappresenta la città.


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