Sperimentazione off-line e on-line del #CommunityVisioning in un processo di pianificazione comunicativa orientato in senso ambientale (Work in Progress)

Figura 1 - Veduta dall'alto del quartiere Sant'Elia nel 1998
Figura 1 - Veduta dall'alto del quartiere Sant'Elia nel 1998. Fonte: http://www.sardegnageoportale.it/webgis2/sardegnafotoaeree/

Correva l'anno 2000 e mi accingevo a concludere il mio percorso di Laurea in Ingegneria Ambientale con indirizzo in Pianificazione Gestione del Territorio. In quell'anno ho avuto la possibilità di sperimentare sul campo, sia nella dimensione off-line che in quella on-line, una metodologia di partecipazione nota col nome di #CommunityVisioning in un processo di pianificazione comunicativa orientato in senso ambientale, condotto in una realtà urbana di margine come quella del Quartiere di Sant’Elia a Cagliari.

Tale sperimentazione faceva parte di un più vasto progetto di Ricerca MURST 60%  dal titolo “Esplorazione di metodi e tecniche di pianificazione interattiva on-line e off-line orientata in senso ambientale” condotto all'interno della Sezione Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell'Università degli Studi di Cagliari, nel quale era insediata la Scuola del Progetto Ambientale.


Durante l'arco di circa 8 mesi insieme a Luca Caschili è stato progettato, sperimentato e valutato un Metodo Operativo di Pianificazione Territoriale Interattiva orientata in senso Ambientale basato sull'integrazione di due percorsi: uno tradizionale condotto in presenza e dunque sincrona e uno  condotto in forma indiretta ed asincrona attraverso la mediazione della rete Internet e del computer.

Questo è stato stato possibile grazie alla attività di coinvolgimento faccia a faccia, supportate e potenziate da un sito web ancora oggi raggiungibile che rappresenta un vero e proprio "diario di bordo" della parte applicativa della ricerca stessa.

L'esito maggiormente significativo della ricerca è la dimostrazione che, in contesti operativi come quello scelto per la ricerca, ponendo insieme processi comunicativi attraverso l’interazione diretta, sincrona, e quella indiretta, asincrona e mediata da computer, non solo è possibile pervenire ad ipotesi di organizzazione dello spazio condivise, ma soprattutto è possibile favorire la mobilitazione della “intelligenza collettiva” latente di una micro-comunità “debole” nei confronti di attori esterni.

La elaborazione della metodologia ha richiesto una profonda attività di ricerca bibliografica e la valutazione di diversi autori e approcci alla interazione collocabili anche all'interno di letterature scientifiche considerabili "esterne" alla Pianificazione Territoriale tradizionale, troppo spesso ridotta a semplice tecnica urbanistica, ma comunque tipiche delle Scienze Sociali.


L'applicazione della metodologia ha permesso di co-costruire ed esplicitare le immagini spaziali degli abitanti e la loro traduzione in idee di organizzazione dello spazio anticipando in forma inedita alcuni elementi divenuti di stretta attualità come l'utilizzo dei #SocialNetwork come mezzo di condivisione e mobilitazione oggi del tutto accettato, usato ed in certi sensi abusato nella pratica di alcuni approcci pianificatori e progettuali.

L'intera Ricerca è stata oggetto di due distinte Tesi di Laurea che riportano la prima e la seconda fase della ricerca, mentre una sintesi della stessa è stata proposta in di due articoli pubblicati nel 2001 a firma congiunta con Luca Caschili: "Processi di pianificazione interattiva on-line e off-line in un’area urbana di margine all'interno del Volume dal titolo "La Città Latente. Il progetto ambientale in aree di bordo" a cura di Giovanni Maciocco e Paola Pittaluga,Casa Editrice FrancoAngeli, Milano;  e "On-line and Off-line Interactive Processes for Planning: An Application in a Marginal Urban Area", nel Volume degli "Atti della Seconda Conferenza Nazionale su Informatica e Pianificazione Urbana e Territoriale INPUT 2001: Democrazia e Tecnologie", a cura di Grazia Concilio e Valeria Monno, Casa Editrice Dedalo, Bari. 

Ho ritenuto di proporre i contenuti di tale ricerca, in forma riveduta e corretta, insieme a vecchie e nuove riflessioni, in quanto i suoi elementi di originalità e assoluta frontiera, sia in termini di impostazione, sia dei risultati conseguiti sono da ritenersi del tutto attuali: 
  •  alla luce della evoluzione disciplinare e delle sfide che il mondo globalizzato impone (come peraltro dimostrano i successivi e continui esperimenti portati avanti nella stessa area di studio e che saranno oggetto di un articolo specifico);
  • in quanto sono stati oggetto di applicazione e raggiungimento sempre di ottimi risultati in diversi contesti della pratica professionale di varie esperienze che vanno dalla Pianificazione Strategica Comunale e di Area Vasta fino a alla pianificazione e progettazione di brani di città in situazioni di bordo favorendo anche altre ricerche e riflessioni sulla centralità della figura del Pianificatore (tali esperienze saranno oggetto di altri post dedicati)
  • perché rappresentano, di fatto, il primo passo teorico e pratico nel lungo cammino che ha portato alla definizione del concetto di #TransVergenza culturale, scientifica e disciplinare che anima questo Blog.
Il lavoro di sistematizzazione dei contenuti e dell'apparato iconografico è tutt'ora un work in progress pertanto invito chiunque avesse piacere a visitare spesso questo post che sta assumendo dimensioni via via sempre più ragguardevoli.

1. #Contesto e #Obbiettivi della Ricerca

Le domande generali vengono accantonate proprio perché generali, come se generale fosse sinonimo di generico, vago, astratto. La domanda originaria che la scienza aveva strappato alla religione e alla filosofia per farla propria, la domanda che giustificava la sua ambizione di scienza: “che cos’è l’uomo, che cos’è il mondo, che cos’è l’uomo nel mondo?”, viene rinviata oggi alla filosofia, ritenuta radicalmente incompetente per alcolismo speculativo, e alla religione, ritenuta radicalmente illusoria per mitomania inveterata. Gli uomini di scienza abbandonano così ogni domanda fondamentale ai non scienziati – dopo averli squalificati a priori – e si ritirano, agnosticamente, ciascuno nel guscio della propria specialistica disciplina: rasserenati dall’impossibilità di integrare le scienze dell’uomo con le scienze della natura, all’impossibilità di far comunicare le proprie conoscenze con la propria vita.

Edgar Morin (1993), Introduzione al pensiero complesso.


Gli obbiettivi della ricerca nascevano in un periodo storico segnato:
  • dalla evoluzione del pensiero e dei modelli disciplinari della Pianificazione Territoriale costantemente in bilico tra la tendenza a conformarsi sempre più come evoluzione deterministica dell'Urbanistica Scienza "dura" ed un'altra che oltre a mettere in evidenza i limiti della prima tentava innanzitutto di collocare la disciplina in via definitiva all'interno delle Scienze Sociali come ed in secondo luogo ad aprirne gli statuti a concetti e riflessioni "esterni" verso un percorso transdisciplinare.
  • dall'ascesa della Rete Internet e dallo sviluppo e contaminazione dei concetti di politica e democrazia da parte del dominio culturale tecnologico che portavano a coniare termini quali #eDemocracy e #eGovernment
  • dalla sperimentazione in ambito Europeo della teoria dello #SviluppoLocale e della #Governance attraverso politiche mirate e vasti programmi di finanziamento che mettevano sempre più in evidenza la necessità di ricollocare al centro la #DimensioneAmbientale di tale sviluppo
  • dall'inizio di un cammino critico riguardo gli effetti sociali ed ambientali delle politiche pianificatorie basate sulla #LeggeRicchezzaEnergia, formulata nell'immediato secondo dopoguerra e dogmaticamente applicata in tutto il mondo, che proprio nell'ultimo ventennio (anni '80 e anni '90) avevano contagiato il mondo intero con le posizioni neoliberiste e turbocapitalistiche di matrice statunitense.

1.1 Il contesto teorico nel campo della pianificazione

Alla fine degli anni '90 la Scuola del #ProgettoAmbientale, fondata a Cagliari da Fernando Clemente e della quale Giovanni Maciocco ne raccoglieva l'eredità, raggiungeva l'apice del proprio percorso di ricerca sia in termini di pubblicazioni che di mobilitazione culturale. 

Attraverso il Corso di Pianificazione Territoriale della Facoltà di Ingegneria di Cagliari, e numerosi convegni di livello nazionale, venivano definite alcune direttrici di pensiero e di azione quali:
  • la pianificazione ambientale complessiva come funzione permanente del territorio (Clemente, 2000)
  • lo spostamento dell'urbanistica verso posizioni associabili al paradigma della #AzioneEffettiva, alla sfera dell'#Etica e della #LegittimazioneSociale, aderendo al filone di studi relativo alla "critica della razionalità" dell'Urbanistica tradizionale verso forme argomentative più vicine ai requisiti di legittimazione della disciplina come scienza sociale applicata (Maciocco, 1995a, 2000);
  • l'apertura all'apporto di saperi diversi e necessari, ancorché "esterni" rispetto ad una "dimensione retorica, pragmatica e argomentativa" che si dispiega in un contesto sociale al fine di favorire la presa di coscienza dei valori dell'ambiente di vita di una comunità e pervenire alla condivisione di ipotesi organizzative dello spazio inedite (Maciocco, 1995a, 2000).

La ricerca, che nasceva in un tale contesto teorico, si basava sull'assunto per cui, in generale, qualsiasi processo di pianificazione territoriale possiede una connotazione comunicativa ed interattiva specifica, tale che, a vari livelli di complessità, impone di considerare come sostanzialmente costitutivo il rapporto diretto tra il soggetto che ha in carico la responsabilità pianificatoria istituzionale, ossia il #Pianificatore, e gli altri soggetti della #Pianificazione

Questi soggetti sono identificabili tra gruppi più o meno ampi quali le #ComunitàLocali e in generale tutti gli #Stakeholders che attraverso le loro #Attività, sia tradizionali, sia non tradizionali, si interfacciano con la #MatriceFisicoAmbientale all'interno della quale la pianificazione ed i relativi progetti si esplicano, ossia i #Luoghi che da tradizionale "oggetto" diventano nuovo "soggetto" della pianificazione.

In termini euristici il #Pianificatore, identificabile a seconda delle situazioni come singolo professionista o Agenzia di natura pubblica o privata, è il portatore del#SapereTecnico e il suo ruolo non è più quello della semplice ricerca di soluzioni tecniche a problemi noti, ma diventa la ricerca di #SignificatiCondivisi e #Soluzioni che siano comprensibili e accettate attraverso un continuo confronto con il #SapereComune e la #ConoscenzaContestuale insiti nelle #SocietàLocali insediate rispetto ai quali indirizzare progetti di organizzazione dello spazio orientati in senso ambientale.

In tal senso il #ProgettoAmbientale, di cui si tratterà più ampiamente nel seguito, è definito come una forma di azione tesa ad attivare  processi dinamici di cooperazione ed interazione fra soggetti sociali per la soluzione di problemi comuni ed il miglioramento delle condizioni locali, mirando alla costruzione di nuove figure socio-territoriali. In questo contesto, il #Pianificatore non solo mette a disposizione l'armamentario del proprio #SapereTecnico, ma con la sua #IntenzionalitàEtica favorisce processi interattivi e comunicativi nei quali i partecipanti creano e condividono informazioni con l'intento di raggiungere una comprensione reciproca.

Sono di riferimento in tal senso le esperienze centrate sulla comunicazione, sulla cooperazione e sull’interazione, riconducibili alle note posizioni dell’Equity Planning (Krumholtz, Forester, 1990; Krumholtz, Clavel, 1994; Metzger, 1996), dell’Insurgent Planning (Douglass, 1999; Friedmann, 1999; Lane, 1999; Singh, Titi, 1995; Weissberg, 1999) oltre ad alcuni programmi di ricerca sulla pianificazione collaborativa e comunicativa (Healey, 1989; 1996, 1997; 1998; 1999), a cui si riconosce una particolare e fondamentale rilevanza.

Tale approccio impone come requisiti fondanti sia una vera e propria #ImmersioneNelContesto sia l’eliminazione della barriera epistemologica di “natura escludente” (Lane, 1999), al fine di includere nel processo di piano forme di razionalità contestualizzate (Mela, 2000) che favoriscano l'#ApprendimentoCollettivo e l’#Empowerment delle società locali (Lane, 1999; Friedmann, 1999; Weissberg, 1999).

Dunque, il processo di pianificazione, attraverso una dimensione comunicativa e interattiva, in cui gli individui sono posti in relazione tra loro da una fitta rete che fa sì che le pratiche quotidiane assurgano al ruolo di forze mobilitatrici e trasformative per la società, sposta il suo focus dalla mera trasformazione fisica della città e del territorio verso una visione di progetto culturale e politico che incorpora le “capacità istituzionali” (Booher, Innes, 1999; Healey, 1998; Amin, Thrift, 1994) delle società locali, sviluppando un new institutionalism (Giddens, 1984) alla cui base viene posta la concezione istituzionale della vita sociale.

1.2 L'ascesa della rete #Internet tra #Tecnologia, #Utopia e l'irrompere della dimensione #OnLine

Gli anni novanta erano non solo gli anni fecondi del pensiero disciplinare di cui si è appena accennato, ma erano anche gli anni della parabola espansiva della rete Internet.

Tale rete di comunicazione globale, basata su un protocollo di scambio di semplici pacchetti di dati, nasceva alla fine degli anni '60 su impulso del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti con lo scopo di affrontare eventuali attacchi bellici mantenendo il controllo e l'efficienza delle comunicazioni strategiche.

Era il periodo della guerra fredda ed esisteva una forte necessità di sicurezza legata anche alla possibilità di comunicare in tempi molto rapidi. Il progetto iniziale di una rete telematica di collegamento, venne affidato dal Dipartimento della Difesa ad un organismo denominato ARPA all'interno del quale vennero fatti i primi studi sulle topologie ottimali delle reti di comunicazione.

Fu Paul Baran (1969), nel suo articolo seminale e fondamentale per tutti i successivi studi sulle reti, a esplicitare che la topologia più sicura per una rete di comunicazioni è la cosiddetta tipologia distribuita non gerarchica, basata sul rapporto paritetico fra i nodi, allo scopo di garantire agli stessi ridondanza e autonomia in caso di eventi bellici. 

Un modello di rete completamente diverso da quello normalmente applicato fino ad allora in ambienti militari, fortemente gerarchico e vulnerabile, che prevedeva invece la presenza di un nucleo centrale di controllo, il centro stella, al quale tutti i nodi erano connessi.

Un concetto, oggi forse banale, ma allora rivoluzionario, che fu alla base dello sviluppo delle posizioni relative alla possibilità di favorire la estensione del principio di funzionamento democratico della società laddove non esisteva e di potenziarne e migliorare le performance nei Paesi già democratici.
Nonostante l'assoluta modernità ed avanguardia del progetto e del modello topologico progettato ARPAnet fu fortemente condizionata al suo inizio dalla lentezza dei sistemi operativi utilizzati e dalle strutture hardware di vecchia concezione. Ma tali limiti vennero presto superati grazie sia al progresso delle soluzioni software e sistemistiche, si pensi allo sviluppo del protocollo di trasmissione dei dati noto con l'acronimo TCP/IP (Transmission Control Program/Internet Protocol), sia al progresso tecnologico dal lato hardware con alla comparsa dei primi microprocessori che diventarono via via sempre più potenti.

Nel 1985 e dopo varie vicissitudini la rete scientifica cambiò nome in Internet (dapprima ARPAnet, divenne di dominio esclusivo dei ricercatori universitari impiegati in campi di ricerca finanziati dal Pentagono che costituivano delle comunità scientifiche operanti attraverso l’uso remoto di supercalcolatori che finirono per elaborare una mole di informazioni tali che nel 1984 ARPAnet venne scissa in due reti distinte: Milnet utile per scopi militari ed Arpanet destinata a scopi scientifici. Quest'ultima venne presa in gestione dalla National Science Foundation Network, che diede vita a NSFnet quando il Dipartimento della Difesa Americana smise di finanziare il traffico interuniversitario).

La crescita della rete fu inarrestabile (in quell'epoca si stimavano 326 computer collegati dei quali 16 fuori dagli Stati Uniti mentre nel 1990 il numero di computer collegati in rete salì a circa 1000 per arrivare a 20.000 nel 1993 (Medri, 1998)) grazie all'adozione della stessa in pressoché tutti gli ambiti accademici e scientifici del mondo ma soprattutto all'enorme interesse che tale tecnologia stava suscitando all'interno delle aziende commerciali.

L'occasione permise alla rete di espandersi ancora di più in quanto per superare il vincolo di scopo di utilizzo scientifico della rete stessa tali enti e organizzazioni di tipo commerciale diedero vita a dorsali di comunicazione che integrarono ad Internet per assolvere ai loro scopi commerciali, generando un processo evolutivo di estensione capillare della rete in tutto il mondo occidentale. 

Fu l'inizio di una campagna di modificazione fisica dell'intero pianeta che veniva cablato per creare quelle dorsali di comunicazione transoceaniche poi attestate a dei punti fisici nei vari continenti denominati NAP (Neutral Access Point) i veri nodi di primo livello di una rete poi sempre più ramificata e che trova la sua estensione finale nelle case e nei dispositivi di trasmissione senza fili.

L'intensità dei capitali investiti era e continua ad essere talmente ingente da far comprendere come tale infrastruttura abbia contribuito di per se a ridisegnare i vecchi equilibri e schemi dando inizialmente agli Stati Uniti un grande vantaggio tecnologico e di opportunità per la dettatura delle direttrici di sviluppo globale che partendo da meri interessi economici ha finito per impattare pesantemente sulle culture locali.

Sempre nel 1985, con un approccio di base differente, inseguendo la speranza di adottare un comportamento equilibrato nelle scelte decisionali, la Comunità Economica Europea avviò il suo cammino verso Internet con il progetto denominato Cosine (Cooperation for Open Systems Interconnection in Europe) per la costituzione di una rete europea attraverso l’integrazione delle reti nazionali già esistenti.
Venivano di concerto rilasciate le prime Direttive Comunitarie in materia che disegnarono un cammino di progressiva liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni passando da un modello che vedeva in tutti gli Stati un Monopolista pubblica ad uno nel quale entravano ad operare compagnie gestite da privati sotto la supervisione dell'autorità governativa.

Le tappe salienti del periodo a cavallo della fine degli anni '80 e inizio degli anni '90 sono: 
  1. la nascita nel 1984 del DNS (Domain Name System) che è lo strumento utilizzato per gestire una parte molto importante di Internet ossia la risoluzione dei nomi di dominio;
  2. la nascita al CERN di Ginevra del World Wide Web grazie anche allo sviluppo del linguaggio HTML e del correlato protocollo di comunicazione HTTP (Hyper Text Transfer Protocol) nonché il cosiddetto URL (Uniform Resource Locator) ossia l'indirizzo di identificazione del server su cui il risulta conservato un determinato documento;
  3. il rilascio nel 1993 del primo web browser Mosaic dalla cui evoluzione deriveranno i successivi Netscape e Internet Explorer
Senza entrare ulteriormente nelle questioni tecniche è necessario mettere in evidenza come i veri elementi di novità e di spinta rinnovatrice, in tutti gli ambiti delle attività umane laddove il WWW stava irrompendo, sono gli strumenti di comunicazione messi a disposizione per la diffusione e la condivisione delle informazioni e del sapere quali i #SitiWeb, la #PostaElettronica (e-mail), i #Newsgroup, le #IRC o più semplicemente note come #ChatRoom. 

I #SitiWeb rappresentavano i luoghi di divulgazione di informazioni e conoscenza da parte dei proprietari del sito e di approdo e fruizione asincrona da parte dei soggetti interessati; mentre la comunicazione uno a uno o uno a molti poteva essere gestita in forma asincrona tramite la #PostaElettronica e i #NewsGroup mentre la comunicazione sincrona sia che fosse uno a uno che uno a molti veniva gestita attraverso le prime #ChatRoom.

Si passava dunque dalla possibilità di scambiare o esporre semplici documenti testuali a quella di potere arricchire questi ultimi con immagini, brani audio e video esposti all'interno dello stesso documento o collegati esternamente tramite link ipertestuali: questi ultimi permettevano di saltare di documento in documento e da sito web a sito web aprendo la possibilità ad infinite possibilità di espressione e allo stesso tempo al dilemma della efficacia e fruibilità di tali risorse.

La #PostaElettronica (e-mail) si candidava a sostituire per sempre le comunicazioni scritte tradizionali grazie alla immediatezza, velocità di trasmissione ed alla possibilità di allegare al copro della comunicazione immagini, brani audio e video.

I #Newsgroup nacquero come gruppi di discussione divisi per argomento ai quali era possibile inviare un proprio messaggio reso visibile all’interno di una bacheca virtuale pubblica dove altre persone possono leggerlo ed eventualmente rispondere. Col tempo tale nome fu via via soppiantato dal termine #Forum

Le #IRC (Internet Relay Chat) invece erano il servizio telematico che consentiva di comunicare in tempo reale con altre persone utilizzando la modalità testuale ma con la possibilità di identificarsi anche in personaggi visibili e sempre più spesso diventavano come modalità di comunicazione ausiliaria ed interattivo a servizio dei #SitiWeb ed identificate più comunemente come #ChatRoom.

Tali strumenti, che all'inizio venivano pensati come elementi neutrali e di dominio di un numero ristretto di persone, hanno finito per abbandonare preso lo specialistico mondo della "telematica" finendo per cambiare prima i modi e i tempi della comunicazione tra le persone e poi via via finito per incidere profondamente, cambiando la società e modificandone i comportamenti, la comunicazione, l’interazione e la partecipazione alla vita sociale e politica.

La partecipazione dei cittadini era diventata uno dei quattro pilastri del modello di #Governance europeo che ricorre sempre più alla sperimentazione di nuove modalità per promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni (si pensi per esempio ai portali  pubblicati alla fine degli anni '90 come “Your Voice”, “Futurum”, ecc.) innescando processi di interactive policy making.

Si moltiplicavano le esperienze basate sull’utilizzo delle Nuove Tecnologie della Informazione e della Comunicazione (#NTIC) da parte della pubblica amministrazione, sia per innescare processi di rigenerazione dei modelli burocratici di erogazione di servizi alla Cittadinanza (#eGovernment) sia per sostenere la partecipazione dei cittadini nel corso dei processi decisionali lungo tutto l’arco temporale entro il quale essi si sviluppano (#eDemocracy).

In Italia, in particolare, dal 2000 con la Legge n.150 relativa alla “Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni” la Pubblica Amministrazione venica chiamata ad operare mediante l’ascolto dei cittadini i processi di verifica della qualità dei servizi e di gradimento degli stessi. Creare communities on-line tra gli utenti del sito di una pubblica amministrazione locale affinché abbiano la possibilità di interagire con le istituzioni locali in un modo diverso, recuperare e sviluppare un senso di appartenenza e di fidelizzazione con il contesto territoriale e istituzionale rappresenta un compito e una sfida per la Pubblica Amministrazione Locale. 

1.3 La irrisolta questione del rapporto tra #Sviluppo #Ambiente e la dimensione #Locale sull'altare della Teoria dello Sviluppo Economico.

La disciplina pianificatoria nasce per dare delle risposte alla richiesta di benessere agendo sulle componenti fisiche del territorio, ma in balia della razionalità tecnica e del canto delle sirene della Teoria dello Sviluppo eEconomico si invaghisce per troppo tempo delle narrazioni meccanicistiche classiche proponendo soluzioni standardizzate e sottoponendo il territorio e le culture locali che lo avevano prodotto ad una perdita di senso e contenuti, rendendo ogni luogo uguale ad ogni altro luogo.

In siffatte condizioni non c’è posto per le diversità e le specificità: tutto deve essere produttivo e per fare questo occorre standardizzare, spianare e ignorare tutto ciò che non può essere spiegato dalle teorie e dai modelli prodotti.

L’idea di locale postula la legittimità della differenza mentre la carta d’Atene del 1933, sancendo l’ordinamento del territorio secondo la “forma metropoli” (Magnaghi, 1994) insieme alla razionalizzazione del sistema produttivo e delle attività umane, ha generato uno scontro tra gli urbanisti e le città storiche europee ritenute inadatte ad accogliere la nuova razionalità. Il nuovo modello pretendeva di riordinare il territorio per zone monofunzionali misurandone l’efficienza attraverso la quantità di spazio (standard) attribuito ad ogni funzione, mentre la città storica rappresentava un intrico di uomini cose e funzioni capace di resistere alla distruzione (Giusti, 1994).

Furono da allora applicati in maniera massiccia i principi della crescita illimitata e il paradigma della modernizzazione colpevoli di aver promosso l’eliminazione delle singolarità locali ma soprattutto colpevoli della identificazione del “bene comune” con quantità di beni standard che nel caso della Città e del Territorio si declinano con gli standards urbanistici.

Sempre secondo Magnaghi (1994) il “... rapido processo di occupazione [del territorio] acceleratosi vertiginosamente nell’ultimo secolo” ha portato alla distruzione dello stesso. Ma il territorio non può essere considerato come oggetto ma come “soggetto vivente”, risultato dell’interazione storica tra uomo e ambiente, “...intreccio inscindibile e sinergico di ambiente fisico, ambiente costruito, ambiente antropico” contro la volontà di disarticolarlo spezzando la fitta trama delle relazioni e riducendo i luoghi a semplici siti. Il sito perde la sua capacità di autogenerazione e autoriproduzione diventando un semplice contenitore di attività e funzioni. Vengono distrutte perciò le componenti endogene capaci di “produrre territorio”. “Quando tutti i luoghi di un territorio sono sommersi dalle funzioni [esso] per eccesso di carico (materiale e simbolico) muore” anestetizzato per mezzo dei processi di penetrazione culturale globalizzante che inducono emigrazione, abbandono e degrado.

L’illusione più grande è stata la volontà di rappresentare troppo schematicamente il territorio fisico trattando le diversità ambientali come ostacoli da rimuovere con il risultato che la società postindustriale “...sarà costretta [...] a dedicare gran parte delle proprie energie a sanare nuove povertà quali quelle determinate dalla necessità di ricostruire le condizioni materiali di sopravvivenza dei corpi biologici”.

L’ambiente antropico subisce processi di sdradicamento delle Comunità da luoghi testimoni di lunghi processi di territorializzazione come risultato per far posto al radicamento della cultura industriale e postindustriale. Tutto ciò ha portato alla “riduzione progressiva e [alla] marginalizzazione di attività autonome, connesse ed integrate alla qualità dei luoghi, verso attività [da lavoro salariato] estratte dall’ambiente e caratterizzate da crescente separazione fra attività agricole, industriali e terziarie.

In ultima analisi tutto ciò porta al distacco fisico ed affettivo delle popolazioni dai luoghi.
La triade popolazione-attività-luoghi viene spezzata perché le attività relazionate col territorio, collante tra la popolazione e quest’ultimo, vengono spazzate via.

L’ambiente costruito, porta i segni delle moderne tecniche costruttive portatrici dell’indifferenza rispetto alla qualità dei luoghi e degli stili dell’abitare. La possibilità di costruire in minor tempo e a minor costo nelle periferie porta allo svuotamento e al degrado del cuore delle città in attesa di possibili segnali di rinascita.

1.3.1 Lo #SviluppoLocale come alternativa strategica

La rinascita del territorio avviene perché le nuove povertà ambientali e sociali sono sempre meno accettate come prezzo da pagare per raggiungere la modernità. Anche se le metropoli terziarie attenuano di poco l’occupazione del territorio a loro volta“...accelerano i processi di omologazione degli spazi-tempi locali nell’iperspazio telematico”. 

Il nocciolo della questione è che purtroppo si parla di sviluppo sostenibile solo come semplice riduzione della quantità di spazio da occupare, di rifiuti da produrre, lasciando le soluzioni ecocompatibili subordinate al paradigma della crescita economica.

 La rinascita dovrebbe basarsi perciò sul riconoscimento del fatto che non serve ridurre i carichi inquinanti se si mantengono inalterati gli agenti produttori del degrado ambientale, e sull’avvio della sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo comprendenti i processi di “autodeterminazione e di differenziazione delle società locali come agenti propulsivi di modelli insediativi equilibrati”. Tutto ciò per tornare a “produrre territorio”.

Ma come si possono favorire i processi endogeni?

Secondo Magnaghi la chiave di volta sta nella “dilatazione del territorio dell’abitare” in modo che gli abitanti si riprendano ciò che gli appartiene in quanto solo chi abita un luogo può ricostruire quella sapienza ambientale che in un percorso circolare tende a ricostruire il territorio e gli abitanti stessi.

Gli elementi che possono sostenere la teoria dello “sviluppo locale” sono le norme (Tarozzi, 1994) che dovrebbero sancire che tra sviluppo del genere umano e crescita economica non vi è necessariamente concatenazione, portando a valutare i livelli di crescita attraverso indicatori che tengono conto dei bisogni umani e non solo di quelli materiali.

Come riportava Lanza (1997), il dibattito su questo tema è quanto mai contraddittorio e delicato visto che riguarda la messa in discussione degli indicatori macroeconomici come il PIL (Prodotto Interno Lordo) e di tutta la contabilità nazionale dei paesi industrializzati che ha ormai raggiunto un alto grado di standardizzazione in virtù della necessità di confrontare le performances economiche dei diversi sistemi economici. Invece il tema della contabilità ambientale nazionale è ancora in via di definizione e non ha raggiunto la standardizzazione della contabilità economica nazionale tanto che si riconoscono quattro approcci di tipo normativo:

  1. Spese difensive ambientali: è stato il primo tentativo di dare una valutazione del peso dell’attività economica sull’ambiente considerando congiuntamente il sistema economico e quello ambientale. Al fine di valutare la situazione di ogni singolo paese, si considerano le spese monetarie sostenute da quell’economia in un determinato periodo di tempo per prevenire e controllare il degrado ambientale prima che si verifichi, o per eliminarlo dopo che si è verificato. Nella maggioranza dei paesi tali spese ammontano intorno al 1,5% e 2% del PIL.
  2. Valutazione del capitale naturale: è nel quadro internazionale, piuttosto minoritaria in quanto applicata in Francia e, per aspetti specifici, da pochi altri paesi. Tale sistema parte da una valutazione della consistenza del patrimonio naturale. Questa operazione, oltre ad essere inficiata da enormi limiti di valutazione, è costosa e molto dispersiva ma, come vantaggio, restituisce una presentazione completa dello stato dell’ambiente di un paese e può fornire a molte altre discipline una banca dati di notevole interesse.
  3. Valutazione del deprezzamento delle risorse naturali aventi mercato: gli utilizzatori di questo sistema sono soprattutto paesi la cui crescita economica è fortemente condizionata dallo sfruttamento delle risorse naturali. Per l’applicazione è necessaria una quantificazione fisica della risorsa. Si tratta di una vera e propria contabilità dalla quale risulta il patrimonio di inizio periodo a cui sommare eventuali scoperte di nuovi giacimenti e sottrarre i consumi per arrivare ad ottenere un nuovo patrimonio di fine periodo. La differenza tra consumi e nuove scoperte prende il nome di variazione netta. Questa grandezza moltiplicata per il prezzo netto costituisce il valore monetario del deprezzamento delle risorse naturali che viene utilizzato per modificare gli aggregati di contabilità nazionale.
  4. Metodologia SEEA (Satellite system for integrated Environmental and Economic Account): sviluppato dall’ufficio statistico dell’ONU, rappresenta il metodo più complesso, ma anche più completo proponendosi di offrire un quadro complessivo integrato di contabilità nazionale e contabilità ambientale. Il SEEA propone una valutazione sia monetaria sia fisica delle relazioni tra economia ed ambiente per giungere a determinare un prodotto interno ecologico che tenga conto dei conti associati al degrado ambientale e allo sfruttamento quantitativo delle risorse naturali. Con opportune tecniche si costruiscono degli indicatori di sostenibilità partendo dalla spesa delle famiglie corretta in modo da tener conto della distribuzione del reddito. Di seguito si procede aggiungendo e sottraendo una serie di variabili solitamente escluse dal calcolo del Prodotto Interno Lordo (PIL) per tenere conto del valore dei beni e dei servizi senza mercato.
Ma oltre il dibattito sulla contabilità nazionale si sono prodotti degli indicatori di sostenibilità per niente integrati con essa. I primi tentativi hanno riguardato più lo sviluppo umano in termini generali che la sostenibilità dello sviluppo stesso.

Lo Human Development Index (HDI) è calcolato annualmente dall’organismo dell’ONU che si occupa dei programmi di sviluppo noto con l’acronimo UNDP (United Nation Development Programme). Tale indice è stato sviluppato a partire dal 1990 e modificato, sebbene in modo non sostanziale, nel corso degli anni. Attualmente l’HDI è costituito da una media di tre indicatori: l’aspettativa di vita, il grado d’istruzione e il prodotto interno lordo pro capite (corretto per tenere conto della diversa parità del poter d’acquisto). Tale indice ha avuto e continua ad avere un ruolo molto importante in quanto consente di effettuare delle comparazioni significative nelle quali risulta che ci sono paesi che nel confronto fra HDI e PIL pro capite perdono fino a 50 posizioni in classifica.

L’intero sistema di indicatori su cui lavora l’ONU è applicato a titolo sperimentale su 8 paesi e comprende numerosi e differenti indicatori divisi in 4 aree: aspetti economici, sociali, istituzionali e relativi alle risorse naturali e all’ambiente. Per ognuna di queste aree sono stati elaborati molti indicatori differenti divisi tra loro in tre grandi gruppi: indicatori di tendenza, di stato (che permettono una valutazione dettagliata a livello macroeconomico) e di risposta (che permettono una valutazione a posteriori delle misura adottate). 
Gli approcci normativi dovrebbero portare, in sintesi, al riconoscimento delle sovranità locali e al “...superamento della guerra tutti contro tutti”.

Secondo Fraboni (1994) gli approcci ambientalisti, ecologisti e localisti sono portatori di nuovi modi di intendere i delicati rapporti tra uomo e ambiente arrivando alla elaborazione del concetto dallo sfondo utopico di Bioregione come “...un territorio a cui corrisponde una coscienza, un luogo ma anche le idee sul come viverci che si sono sviluppate in quel luogo ... una economia che sia in equilibrio con l’ecosistema riducendo la dipendenza da cibo e dall’energia di importazione ... dei confini di tipo flessibile ... unità sociali dotate di pieni poteri, politicamente autosufficienti, in cui i cittadini ... possono comprendere e controllare le decisioni che riguardano la loro vita...”.

Questa citazione di P. Berg (1978) scatena la contrapposizione tra bioregione e “forma metropoli” della quale Magnaghi (1998) dà una definizione di “...struttura urbana interamente generata dalle leggi della crescita economica; a carattere fortemente dissipativo ed entropico, senza confini né limiti alla crescita; squilibrante e fortemente gerarchizzante; omologante il territorio che occupa, ecocatastrofica, svalorizzante le individualità territoriali; priva di qualità estetica, riduttiva dei modelli dell’abitare”.

Sintetizzando, gli approcci ambientalisti, a partire dalla valorizzazione del territorio, cercano di produrre nuovi modelli insediativi fondati sulla ricerca delle necessarie sinergie fra ambiente fisico, antropico e costruito.

Nella pratica però sono i nuovi movimenti che favorendo gli approcci normativi ed ecologisti prima descritti portano a delle nuove pratiche di vita sociale. Ne sono prova i fenomeni di economie alternative e nuove forme di cooperazione; i processi di reidentificazione del territorio e il nascere di nuovi movimenti etnici su base regionale.

Le regole che possono portare al progetto di una nuova carta urbanistica sono essenzialmente:
  • stabilire il primato del territorio dell’abitare perché solo chi abita concretamente un luogo non lo distrugge ma ne ha cura, lo sviluppa perché lo ritiene cosa propria, una parte di sé;
  • produrre complessità, differenze, autonomia perché l’accrescimento del numero delle relazioni e del loro genere dota il sistema di maggior stabilità, maggiore resistenza al cambiamento, superiore efficienza;
  • realizzare circolarità, reciprocità e integrazione nel processo di produzione del territorio affinché la sperimentazione di materiali e tecniche costruttive appropriate al luogo rappresentino innovazione così come l’evocazione della passata autonomia energetica porti alla delineazione dell’idea per una futura autonomia energetica.
  • ridefinire i limiti ed i confini dei luoghi: i limiti non come vincolo o norma ma come processo di autoregolazione ed i confini come massima distanza tollerabile dal centro per non costruire una periferia infinita (esemplare al proposito quanto dice Maurizio Fraboni). Dovranno essere posti limiti di carico antropico, di consumo di suolo, di artificializzazione del territorio, al consumo energetico, alla produzione di rifiuti e alla emissione di sostanze inquinanti nell’acqua, nell’aria, nel suolo. Tutto ciò porterebbe all’edificazione di Ecopolis, città che produce territorio piuttosto che consumarlo e distruggerlo; progetto di relazione col sud del mondo e con le proprie periferie regionali; progetto di abolizione delle periferie per la costruzione di una città policentrica, di una città di villaggi; costruzione della qualità urbana come ridefinizione del senso dell’abitare nei suoi aspetti comunitari, ambientali ed estetici;
  • stabilire, per qualunque luogo, regole appropriate per l’edificazione e il governo del territorio affinché il progetto sia locale e rappresenti la formazione di una cultura territoriale, sviluppo della società del luogo per far emergere ciò che potenzialmente già esiste, ma non sa esprimersi adeguatamente in termini di autogoverno del territorio. In questo caso il ruolo del progettista/pianificatore si delinea come quello di un esploratore la cui abilità creativa, tecnica ed artistica, sta nel portare alla luce, denotare e restituire forma all’identità dei luoghi.

Il sistema territoriale ottimale dovrà rispecchiare contemporaneamente le caratteristiche di sistema fisico chiuso, autoriproducente e privo di rapporti input/output con l’ambiente, e di sistema fisico aperto, influenzato dalle perturbazioni dell’ambiente secondo il funzionamento dei sistemi autopoietici.

In particolare sulla teoria dei sistemi autopoietici si veda: H. Maturana, F.J. Varela (1972), “Macchine ed esseri viventi”, Astrolabio, Roma; H. Maturana, F.J. Varela (1985), “Autopiesi e cognizione”, Marsilio, Padova; H. Maturana, F.J. Varela (1987), “L’albero della conoscenza”, Garzanti, Milano; F.J. Varela (1992), “Un know-how per l’etica”, Laterza, Bari; M. Ceruti (1995), “Evoluzione senza fondamenti”, La tersa, Bari; S. Tagliagambe (1994), “La crisi delle teorie tradizionali di rappresentazione della conoscenza”, in G. Maciocco (1996), “La città in ombra”, Franco Angeli, Milano

Con il meccanismo della cognizione, tali sistemi dimostrano la capacità di gestire come sistemi chiusi la loro apertura verso l’ambiente adattando in maniera autoregolamentata la trasformazione delle proprie caratteristiche strutturali e conservando la propria organizzazione. Questa dovrebbe essere la condizione sine qua non per assicurare uno sviluppo sostenibile.

Lo sviluppo sostenibile

L’espressione sviluppo sostenibile può essere spiegata additivamente attraverso i significati dei due termini che la compongono. Il concetto di sostenibilità proviene dalla letteratura scientifica e naturalistica: si definisce sostenibile la gestione di una risorsa se, nota la sua capacità di riproduzione, non si eccede nello sfruttamento oltre un determinata soglia. In generale, il tema della sostenibilità è riferito alle risorse naturali rinnovabili, aventi, cioè, la capacità di riprodursi (pesca, colture arboree); le risorse che non hanno questa caratteristica vengono definite esauribili (risorse minerarie). 

Il tema dello sviluppo è strettamente legato alle scienze sociali ed in particolare all’economia: esso è spesso inteso come sinonimo di crescita economica, ossia l’incremento del prodotto interno lordo, che misura la produzione di beni e servizi valutati a prezzi di mercato. 

Di fatto il concetto di sviluppo e le origini di una particolare branca delle scienze sociali chiamata Economia dello Sviluppo coincidono storicamente con il processo di decolonizzazione che ha caratterizzato molti paesi del sud del mondo. Una lettura più moderna utilizza il termine sviluppo per includere nel processo di crescita una serie di categorie non strettamente economiche, quali gli aspetti sociali o la possibilità di accedere ad un’istruzione qualificata.

L’espressione sviluppo sostenibile diventa molto popolare sul finir degli anni ’80. Nel 1987 infatti è stato pubblicato il Rapporto Bruntland che, elaborato nell’ambito dell’ONU, riporta la seguente definizione: lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Vengono dunque allo scoperto due ulteriori concetti di straordinaria importanza: la sostituibilità dei fattori della produzione (capitale economico, umano e ambientale) e l’equità (intesa come perequazione delle ricchezze nel mondo). In base al grado di sostituibilità dei fattori produttivi si misura il grado di sostenibilità:

Sostenibilità molto debole (Smd)
Le preoccupazioni ambientali pur presenti all’interno delle politiche di sviluppo, non costituiscono in alcun modo un limite al perseguimento di queste ultime
Sostenibilità debole (Sd)
Si cerca di preservare il Capitale naturale critico ossia il livello minimo necessario alla riproducibilità biologica di un ecosistema
Sostenibilità forte (Sf)
Viene rispettata la Capacità di carico ossia la quantità di inquinamento e rifiuti che un ecosistema è in grado di sopportare.
Sostenibilità molto forte (Smf)
Le preoccupazioni relative alla sostituibilità costituiscono una condizione necessaria a tutte le altre politiche

Tabella 1: gradi di sostenibilità

Per quanto riguarda l’equità possiamo considerare due tipologie: Equità infragenerazionale (che implica parità di accesso alle risorse, ambientali o meno, da parte degli attuali abitanti del pianeta) ed Equità intergenerazionale (implicante pari opportunità fra successive generazioni). Ma la sostenibilità deve essere anche culturale: in base a questa concezione il processo di modernizzazione che caratterizza il paese deve cercare di trovare le forze del cambiamento all’interno di una continuità territoriale.

Il limite maggiore sul quale ogni tipo di politica “sostenibile” è che l’incertezza ancora rilevante sulle caratteristiche fisiche e biologiche dei fenomeni ambientali non ci permette di conoscere quanto e come il degrado dell’ambiente può incidere sulle attività economiche e sui costi delle politiche ambientali dirette a mitigare gli eventuali danni. L’unica cosa certa è che lo sfruttamento oltre un certo limite di una risorsa naturale riproducibile porta all’estinzione di una o più specie, ma vi sono casi di “irreversibilità in contesto incerto” (per esempio, non sappiamo se esiste un limite alla concentrazione di CO2 in atmosfera oltre il quale ogni nostra previsione sugli effetti del cambiamento climatico risulta scorretta) che portano a politiche veramente molto distanti fra loro sintetizzabili in quattro categorie:
  1. Politiche di non rimpianto (no regret policy): per le quali si attuano tutti gli interventi necessari per non doversi dolere della mancata applicazione di una certa misura;
  2. Impegni e previsioni (pledge and review): con la quale alcuni paesi si impegnano adottando una certa misura di controllo delle emissioni cercando, nel contempo, di indagare e capire meglio;
  3. Aspettare e vedere (wait and see): questo è l’atteggiamento attendista dei paesi niente affatto convinti sia dei rischi che dei costi che preferiscono continuare sui loro passi;
  4. Valore d’opzione: è la scelta del non uso di una risorsa per lasciare la strada aperta a un maggior numero di possibilità future.

Ma il vero scontro ideologico si sintetizza nelle posizioni tecnocentica ed ecocentrica delle quali si propone una sintesi nella seguente tabella:


Posizione Tecnocentrica
Posizione Ecocentrica

Dell’abbondanza
Accomodante
Comunitaria
Radicale





Caratteristiche
Sfruttamento delle risor-se, posizione orientata allo sviluppo
Gestione e conservazione delle risorse
Salvaguardia delle risorse
Preservazione estrema





Tipo di economia
Anti-verde, con mercati totalmente liberi e nessun vincolo
Verde, guidata da stru-menti economici (per es. tasse sull’inquinamento)
Profondamente verde, volta a mantenere uno stato stazionario, e rego- lata da norme strette
Rigorosamente verde, ri-gidamente vincolata per ridurre al minimo l’im-patto sulle risorse





Strategie di gestione
Obiettivo primario: massimizzare il PIL. Mercati liberi assicurer-anno capacità di sosti-tuzione infinita tra capi-tale naturale e capitale manufatto, allentando tutti i possibili vincoli legati alla scarsità delle risorse
Crescita economica modificata per tenere conto del peso sull’ambiente dei modi di produzione e consu-mo. Si rifiuta la ipotesi della sostenibilità infi-nita. Regola operativa: capitale complessivo costante nel tempo
Crescita economica nulla; crescita della po-polazione nulla.
Separazione dei fattori della produzione. Punto di vista sistemico e rife-rito al pianeta nel com-plesso.
Riduzione dell’econo-mia e della popolazione. È imperativa una riduzione di scala della pro-duzione e dei consumi.





Etica
Si privilegiano i diritti e gli interessi degli esseri umani attual mente vi-venti; la natura ha un va-lore strumentale (il va-lore che gli viene rico-nosciuto dagli uomini
Emerge la preoccupazio-ne per gli altri, cioè la equità intergeneraziona-le e infragenerazionale. La natura ha comunque un valore strumentale
Gli interessi collettivi sono predominanti ris-petto a quelli privati ed individuali. Gli eco-sistemi hanno un valore primario, e la com-ponente di beni e servizi un valore secondario
Accettazione della bio-etica, cioè degli interessi morali conferiti a tutte le specie non umane e alle parti abiotiche dell’am-biente; la natura ha valo-re intrinseco e indipen-dente dall’esperienza umana





Criterio di sostenibilità
Molto debole
Debole
Forte
Molto forte

Tabella 2: le posizioni ideologiche sull'ambiente[1]



[1] Da A. Lanza (1997), op. cit, fonte: Turner – Pearce – Bateman (1996), “Economia ambientale”, Il Mulino, Bologna

Dunque quanto detto finora mette in chiaro che il concetto di sviluppo è soprattutto una questione di politiche che si devono districare tra questioni di tipo economico, demografico ed energetico. Nessuno che si occupi di pianificazione può ignorare le ripercussioni che già si avvertono e che si amplificheranno nei prossimi anni nei paesi del nord del mondo dovute alle questioni economica, demografica ed energetica che sono punti fondamentali di tutte le politiche territoriali.

La questione economica

Nel 1960 il rapporto tra il reddito del 20% più ricco e quello del 20% più povero della popolazione mondiale era di 30 a 1 crescendo a 32 nel ’70, a 45 nel 1980 fino a e oggi supera 60. La distribuzione attuale del reddito a livello mondiale dimostra una disparità enorme: il 20% della popolazione concentrata nei paesi ricchi dispone dell’87% del reddito totale. Tale distribuzione crea un’ulteriore disparità di accesso alle possibilità di sviluppo divenendo di fatto insostenibile. Tale situazione economica ha dirette ripercussioni sui processi migratori tanto che negli ultimi trent’anni c’è stato uno spostamento di circa 35 milioni di persone di cui l’80% dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati. Ma qual è il legame tra il reddito pro capite - per altro non esaustivo nel descrivere la reale condizione di benessere di un paese - e la questione demografica?

La questione demografica ed energetica

Uno stesso saggio di crescita della popolazione (misurato dalla differenza delle curve di natalità e mortalità) può essere associato a redditi molto bassi o molto alti.
La teoria della Transizione demo-grafica ci fornisce gli strumenti per spiegare ciò.

Per bassi redditi, in figura 2, si osserva un’alta natalità accompagnata da un’altrettanto alta mortalità. Per alti redditi, invece, si ha una crescita della popolazione con bassi valori di natalità e mortalità.

Figura 2 - fonte:  Lanza (1997)


Ma la gran parte del pianeta si trova nella situazione intermedia nella quale incrementi anche modesti della condizione economica e sociale permettono di ridurre rapidissimamente la mortalità mentre la natalità rimane pressoché invariata rappresentando una bomba pronta ad esplodere. Dunque potremmo pensare, non a torto, che la crescita economica può giovare allo sviluppo, disinnescando la bomba demografica, se non fosse che per i paesi più arretrati l’incremento del reddito medio pro capite dovrebbe compensare e superare il rapidissimo incremento della popolazione fino a raggiungere dimensioni impressionanti. Il punto cruciale è che la crescita economica fa bene alla sostenibilità dello sviluppo ma il suo eccessivamente rapido incremento si traduce in una pressione sulle risorse naturali.

Nella figura 2 sono state aggiunte le curve che rappresentano rispetti-vamente l’emissione lorda pro capite di CO2 nell’atmosfera e l’abbattimento pro capite che le politiche sono in grado di assicurare. Le emissioni lorde sono valutate tenendo conto unicamente dell’energia consumata da un paese. Graficamente la differenza tra emissioni lorde pro capite ed abbattimento pro capite dà luogo ad una curva a campana. Ciò significa che per bassi valori di reddito pro capite sono basse anche le emissioni nette pro capite, che crescono con l’aumentare del reddito, per poi decrescere a partire da un determinato livello di reddito pro capite in poi.

Figura 3 - fonte:  Lanza (1997)


Tale andamento si riconferma per gli oltre quaranta inquinanti studiati in letteratura per cui si hanno basse emissioni e assenza di abbattimento per redditi pro capite bassi, alte emissioni lorde e alto abbattimento per redditi pro capite alti. Questa relazione viene definita Transizione ecologica. Ma fin qui si è parlato di emissioni pro capite mentre ciò che interessa sono i valori totali ottenibili moltiplicando le emissioni nette pro capite per la popolazione. 

In termini di transizione ecologica l’espansione economica dei paesi in via di sviluppo può portare ad un incremento rapido delle emissioni lorde pro capite non associato ad una crescita di pari livello dell’abbattimento determinando una pressione insostenibile sulle risorse naturali. Dunque la situazione ottimale si avrebbe se la maggior parte della popolazione si spostasse alla destra del grafico agendo sul grado di scolarizzazione della popolazione femminile che, è dimostrato, condiziona fortemente il grado di fertilità, insieme a programmi di informazione sulla contraccezione e controllo delle nascite per quanto riguarda l’aspetto demografico; disponendo di tecnologie di produzione e di abbattimento degli inquinanti più avanzate in rispetto della teoria della transizione ecologica. 

Ma esiste un altro legame tra ricchezza prodotta e l’energia che viene consumata da un paese. Basta un esempio per capire le dimensioni del problema: “solo negli Stati Uniti ogni persona consuma all’anno una media di 25 tonnellate di materie prime. 

La popolazione americana, il 4% di quella mondiale, produce un terzo delle automobili del pianeta e un quarto dell’energia prodotta”. Come è possibile una tale aberrazione? Possiamo in questo caso parlare di sviluppo sostenibile? Gli Stati Uniti rappresentano l’emblema di quella che è ancora l’impostazione dei paesi sviluppati: il fordismo (l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor) si trasforma in americanismo; tutto deve essere subordinato alle esigenze della produzione, il capitale chiede che anche la vita extralavorativa sia organizzata in ragione delle esigenze della produzione. “In Italia si è avuto un inizio di fanfara fordistica (esaltazione della grande città, piani regolatori per la grande Milano ecc., l’affermazione che il capitale è ancora ai suoi inizi e che occorre preparargli dei quadri di sviluppo grandiosi….) poi si è avuta la conversione al ruralismo e all’illuministica depressione della città,….”.
È proprio nella patria del capitalismo che, dopo la seconda guerra mondiale, viene proposta e messa in atto una programmazione economica secondo la Teoria dello Sviluppo Economico fondata sulla Legge Ricchezza-Energia.

Questo modello impone un tasso di crescita medio annuo del 3% superiore al tasso di crescita della popolazione mondiale che è pari al 2% annuo per la transizione demografica; ma ciò significa una crescita esponenziale del bisogno di energia. La quantità totale annua di energia richiesta sarà data dalla relazione :

Figura 4 - fonte Mura (1996)



Risulta di fondamentale importanza capire che non si può prescindere dalla conoscenza delle teorie appena trattate se si vuole instaurare un approccio consapevole ai problemi del territorio. In accordo con Clemente (1999), se passiamo dal dominio puramente economico-demografico a quello della pianificazione, “…occorre sottolineare come la programmazione dello sviluppo debba adeguarsi al nuovo modello della pianificazione ambientale. Dalla concezione settoriale del piano che, basandosi su una prospettiva di crescita illimitata, si preoccupava principalmente di dotare il territorio di strutture di tipo espansivo e di servizi urbani e alla produzione, si deve passare alla concezione dello sviluppo sostenibile, ovvero uno sviluppo in cui le variabili economiche sono considerate un supporto per l’organizzazione del sistema ambiente (presupponendo), nelle scelte di programmazione, la considerazione degli indicatori ambientali come prioritari rispetto a quelli di natura puramente economica. L’ambiente è sovraordinato anche rispetto ai problemi di organizzazione dello spazio insediativi. In questa prospettiva, non è più sufficiente seguire un criterio di funzionalità astratta ma, ma occorre commisurare le soluzioni concernenti l’edilizia abitativa e le strutture di servizio ai valori del paesaggio e dell’ambiente”.

Inoltre rimane aperto il dibattito relativo al corpus delle tecniche di ausilio all’attività del Planner a supporto della parte politica e delle comunità locali nella fase decisionale e “... a questo proposito non appare più sufficiente la valutazione dell’impatto ambientale ma occorre andare oltre, scartando le soluzioni di problemi spaziali che, risultando semplicemente “compatibili”, non siano organicamente inserite nel sistema ambientale complessivo” (Clemente, 1999).

Tecniche di valutazione e supporto alla decisione: dall’ABC fino all’AMC e alla VIA

Nel panorama disciplinare non mancano i tentativi di produrre tecniche più o meno raffinate che consentissero di perseguire il bene collettivo: l’esempio più famoso è senza dubbio quello di Ian McHarg che con la tecnica dell’overlay mapping (già sperimentata da Manning nell’esperienza del piano di Billerica) si prefiggeva di determinare la “soluzione di massima utilità sociale” (McHarg, 1969, 1989 it.).

La Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) nasce agli inizi degli anni sessanta negli Stati Uniti come lettura critica degli approcci valutativi noti come Analisi Benefici Costi (ABC) e come evoluzione dell’Analisi Multicriteria (AMC) allorché il processo decisionale in campo ambientale e territoriale si è dovuto arrendere al “fallimento del mercato”: per dirla meglio ci era resi conto che alcuni aspetti sociali non sono esprimibili in termini monetari e dunque non possono essere inseriti in bilanci quantitativi come l’ABC tanto più che questa rende totalmente ininfluente il ruolo del decisore politico.

L’AMC detta anche Analisi ad Obiettivi Multipli rinuncia a monetizzare gli aspetti che fanno parte del processo decisionale all’atteggiamento vincolistico fornendo un ventaglio di scelte possibili in base al criterio di efficienza di Pareto (Campari, Mogorovich, Montanari, 1991) anche se presenta dei limiti legati al fatto che, quando gli obiettivi sono tanti, le matrici di decisione raggiungono dimensioni tali da disorientare il decisore.

La VIA tenta di rispondere ai limiti evidenziati dall’AMC e nasce per decidere tra progetti alternativi in maniera preventiva tenendo conto della soggettività nel conflitto degli interessi e della partecipazione al processo decisionale anche se, di fatto, anche tale tecnica mostra dei limiti che non permettono di raggiungere i risultati sperati.
Infatti la Direttiva della Comunità Europea e il Decreto italiano di recepimento limitano la valutazione ad un elenco di grandi opere (come autostrade, centrali elettriche, raffinerie ecc.) escludendo la pianificazione di tipo attuativo e sistemandola al livello della progettazione di massima. Inoltre, lo studio di impatto ambientale è a cura del proponente il progetto che successivamente viene verificato dal settore pubblico. Ma in contesti di alta complessità e "pressione" politica le verifiche pubbliche possono risultare blande e dunque il proponente si trova a fungere da controllore e controllato facendo perdere completamente di trasparenza il metodo.

Perciò ci si trova di fronte ad una politica di applicazione sbagliata più che a una tecnica poco efficace. 

Possiamo dunque affermare che a questo livello si tratta esclusivamente di adottare politiche territoriali più serie e attente mentre il planner viene chiamato ancor più pressantemente ad un atteggiamento etico e responsabile anche se, si deve riconoscere che le pressioni per la soluzioni di comodo superano di gran lunga la capacità di resistenza.

E allora in questa apparente situazione di crisi normativa, che mal si sposa con la complessità del tema trattato, che spazio trova la dimensione ecologica dello sviluppo?

La Dimensione Ecologica dello #SviluppoLocale

La città dipende da zone molto estese per le forniture di acqua, energia, cibo, materiali da costruzione e altre risorse necessarie al suo sviluppo portando ad un utilizzo sperequato dei territori limitrofi e lontani compromettendone la qualità. Legata pressoché totalmente dall'esterno per i suoi fabbisogni energetici e per lo scarico dei la città è un sistema a bassa produttività.

Ponendo l'attenzione sulle dinamiche di trasformazione possiamo considerare l’ambiente urbano in termini ecologici, analizzando il suo flusso energetico scoprendo che 2/3 dell'energia consumata vengono utilizzati per soddisfare una domanda per usi domestici ed industriali. La sfida per il futuro è la progettazione di sistemi urbani in grado di ridurre la propria dipendenza energetica tramite un uso ottimale delle fonti di energia rinnovabile e del riciclo dei rifiuti. Ma per fare questo servirebbe un corpus di norme più chiare snelle ed efficaci.

Come già visto l'aumento del fabbisogno energetico pro-capite è in rapporto diretto con lo sviluppo dei nuovi stili di vita e all'innovazione dei sistemi di produzione. Al crescere della dimensione e della complessità di un sistema urbano, anche il costo energetico di mantenimento tende a crescere in modo proporzionale, e ad un tasso maggiore. Di regola una dimensione raddoppiata richiede più del doppio della quantità di energia necessaria a ridurre la maggiore entropia che deve essere contrastata per mantenere l'accresciuta complessità strutturale e funzionale. 

Il mantenimento della stabilità in risposta a perturbazioni ambientali associato all’aumento di dimensione e di complessità è solitamente una magra consolazione rispetto al decremento dei profitti legati agli accresciuti costi per riversare all'esterno il disordine. Le diseconomie possono essere minimizzate attraverso il miglioramento delle strutture per favorire l'efficienza delle trasformazioni energetiche (Sharpe, 1982), che non è tuttavia possibile eliminare completamente. 

Quando un ecosistema diventa più grande e più complesso, la quantità di produzione lorda che deve essere respirata dalla comunità per il proprio sostentamento si accresce, e la quantità che può essere incanalata verso un ulteriore aumento delle dimensioni tende a diminuire fino ad annullarsi. Quando entrate e uscite si bilanciano, le dimensioni non possono ulteriormente aumentare, e la quantità di biomassa che può essere sostenuta in quelle condizioni viene chiamata capacità portante massima (carrying capacity). 

E' stato dimostrato che l'"optimum" di capacità portante che può essere realmente mantenuto per un lungo periodo, nonostante l'incidenza delle perturbazioni ambientali, è molto più basso del valore teorico, e si aggira attorno al 50%.

La base logica per una classificazione degli ecosistemi è l'energia rispetto alla quale distinguiamo almeno quattro tipi fondamentali di ecosistemi: (1) naturali, alimentati dall'energia solare; (2) naturali, alimentati anche da altre fonti energetiche; (3) antropizzati, ad energia solare; (4) antropizzati urbani industrializzati, alimentati da combustibili (fossili, organici, nucleari, ...).




tipo
esempi
flusso di energia annuale media (*)
Kilocalorie (Kcal)/mq
1
 oceano, foresta montana
 circa 1.000 - 10.000
 circa 2.000
2
 estuario, foresta pluviale
 circa 10.000 - 40.000
 circa 20.000
3
 agricoltura, acquacoltura
 circa 10.000 - 40.000
 circa 20.000
4
 città, centro industriale
 circa 100.000 - 3.000.000
 circa 2.000.000

(*) i valori sono approssimati, poiché i flussi energetici che interessano gli ecosistemi terrestri (inclusi quelli urbani) sono difficili da inventariare e per il momento è possibile calcolare soltanto una stima della media oggettiva

Tabella 3: classificazione degli ecosistemi in base al flusso energetico

I sistemi urbano-industriali sono ecosistemi a combustibile (tipo 4), nei quali l'energia dei combustibili sostituisce in tutto e per tutto quella solare. Essi richiedono un flusso energetico superiore di almeno due-tre ordini di grandezza a quello che sostiene la vita nei sistemi naturali alimentati dal sole.

Con il continuo aumento del costo del combustibile, nonché dei gravi problemi di inquinamento, di esaurimento delle risorse e delle imprevedibili politiche di mercato, nelle città cresce l'interesse all'uso di energie alternative. 

Possiamo sintetizzare nella tabella seguente i tipi di energie:


Tipo di energia
Descrizione
Carbone, petrolio e gas naturale
Costituiscono circa il 90% dell’attuale consumo primario di energia come combustibili. Sono fonti energetiche altamente inquinanti in tutte le fasi del loro trattamento ed utilizzo. I residui della combustione finale provenienti soprattutto dai gas di scarico dei veicoli a motore e dagli impianti di riscaldamento sono i principale responsabili di molte malattie a danno di uomini, animali, e oltre ai danni recati a monumenti e opere d'arte per effetto dell’anidride solforosa del biossido d'azoto dei gas delle automobili che producono le ben note piogge acide che danneggiano irreparabilmente anche il patrimonio boschivo e lacustre.

Energia nucleare
L’ostacolo maggiore al suo impiego è rappresentato non tanto dalla pericolosità degli impianti quanto dalla pericolosità delle scorie di produzione dell’energia. Gli effetti sull’effetto serra sono trascurabili

Energia geotermica
Poiché deve essere usata o convertita molto vicino al luogo dove viene "estratta", i rischi sono minimi e le misure protettive ambientali possono essere facilmente applicate. I più gravi problemi sono connessi con i prodotti chimici contenuti nell'acqua calda e quando dall'acqua di scarico viene estratto il calore. Oggigiorno si adotta comunemente la re-iniezione, che é però costosa e può avere un effetto inquinante sulle falde acquifere sotterranee utilizzate per l'acqua potabile.

Energia solare (fotovoltaica).
La produzione di questa energia ha molte analogie con il processo di fotosintesi clorofilliana alla base della produttività agricola e, in generale, della funzionalità degli ecosistemi naturali Tuttora il costo è maggiore rispetto alle forme di energia tradizionali. Secondo stime recenti (Coiante, 1989) il rendimento medio R di un processo agricolo (espresso dal rapporto tra
Energia nella sost. organica prodotta in un anno per mq di terreno e Energia incidente all'anno per mq) si colloca tra 0,5% e 1%, un rendimento piuttosto basso. La quantità media di energia solare in Italia è di 1.000 Kilowattora/m2/anno. Ipotizzando una efficienza media a livello del terreno pari al 6,5%, si ha che un m2 di modulo fotovoltaico su terreno attrezzato può produrre in media 100 Kilowattora/m2  
Ai costi attuali è prevedibile (Rossi e Giavelli, 1990) un reddito di circa 20 milioni di lire/anno per un terreno di due ettari "coltivato a fotovoltaico". Spesso le sostanze organiche prodotte su quei terreni possiedono un elevato valore biologico e producono un reddito monetario elevato.

Energia eolica
il suo contributo per il rifornimento energetico è modesto e probabilmente resterà tale. Le preoccupazioni ambientali riguardano il rischio di incidenti, il rumore, l'interferenza con le telecomunicazioni e soprattutto l'incidenza sugli aspetti estetici. In termini di produzione, le zone che danno un buon apporto si trovano sovente in luoghi ameni e nasce quindi la preoccupazione che le dimensioni di un impianto eolico determino un effetto negativo sul paesaggio.

Energia dalle biomasse
A parte l'impiego del legno e del letame, con i conseguenti effetti negativi sul manto forestale e sulla progressiva sterilizzazione dei suoli agricoli, la produzione di biogas dai materiali di rifiuto rurale costituisce un passo avanti ed è il riflesso di una sana amministrazione ambientale generata dalla comunità e per la comunità urbana.



Tabella 4: tipi di energie e loro impiego

Rimane comunque vera l’osservazione secondo la quale lo fonte d’energia più pulita è il risparmio energetico.

Per contribuire a proteggere l'ambiente e permettere allo stesso tempo che lo sviluppo economico continui, le soluzioni vanno ricercate e trovate su scala globale, nazionale ma anche locale.

Esiste una relazione tra la diversa organizzazione della struttura urbana e le forti differenze nei consumi: le città o gli insediamenti a sviluppo verticale assorbono energia per la climatizzazione e gli ascensori, quelle a sviluppo orizzontale devolvono buona parte dell'energia in ingresso per i trasporti e il riscaldamento. Inoltre c’è corrispondenza diretta fra la quantità di consumo energetico (domanda) in una data area ed il rischio di inquinamento con i modelli urbani ad elevata densità abitativa massimizzano il rischio di inquinamento, a causa dell'accumularsi delle emissioni in spazi ristretti (Newcombe, 1975). Stime recenti indicano il 56% di emissioni inquinanti dovute a ossidi di azoto, 11% per l'anidride solforosa, 67% per le polveri, 93% per i composti organici volatili.

Per cercare di affrontare gli indubbi problemi ambientali che il massiccio uso dei combustibili sta determinando nelle città, la principale iniziativa da perseguire è quella del risparmio energetico. Ma anche la produzione di energia si deve evolvere con metodologie più “pulite” e innalzando i rendimenti degli impianti mediante l’impiego di cogenerazione avanzata.

Come riportato su Il Sole 24 Ore del 20 settembre 2000, all'epoca della ricerca le società Edison e Siemens Westinghouse Power Corporation, con il contributo finanziario al 25% del Ministero dell'Ambiente italiano, avevano in progetto di realizzare entro il 2002, nella centrale di Spinetta Marengo, il primo impianto in Italia di tipo SOFC/MT da 320 kW, il terzo di questo tipo nel mondo, dopo il californiano in realizzazione e quello tedesco per il quale era previsto il completamento entro il 2001. La tecnologia SOFC (Solid Oxid Fluel Cell) è basata sull'utilizzo di tubi ceramici chiusi a un estremo (lunghezza 1,5 metri, larghezza 2,2 centimetri) che trasformano in corrente elettrica l’energia del combustibile (grado di efficienza 60%); durante il processo il gas naturale viene portato ad una temperatura di 1000°C, quindi convertito in idrogeno e monossido di carbonio, i due elementi lambiscono le pareti esterne dei tubi sui quali si pompa ossigeno per permeare lo strato di ossido di zirconio. Nella combinazione con l’idrogeno e il monossido di carbonio si ha la produzione degli unici prodotti di scarto: vapore acqueo e anidride carbonica. Si produce in questo modo energia elettrica continua che viene trasformata in alternata prima dell’immissione in rete. I gas di uscita vengono ulteriormente usati e con un semplice sistema turbina/alternatore innalza ulteriormente il rendimento del SOFC/MT. I vantaggi di questo tipo di energia sono: praticamente nessuna produzione di scorie, con riduzione del 20% e del 98% rispettivamente di anidride carbonica e ossidi di azoto (quindi assoluto rispetto del protocollo di Kyoto); la soluzione del problema del trasporto dell’energia prodotta riducendo i costi di trasferimento e i rischi commessi.

Se andiamo a ragionare alla scala più piccola del locale arriviamo a comprendere i singoli edifici che dovrebbero a loro volta rispettare i principi della sostenibilità energetica sia in fase di costruzione che in fase di gestione. Le nuove abitazioni vanno progettate in modo da consentire un reale risparmio, che ripaga il cittadino due volte, in forma diretta per le minori spese di riscaldamento e in forma indiretta per il ridotto danno alla collettività e al sistema ecologico in cui l'abitazione è inserita. In questa direzione sembrano orientati gli sforzi di varie associazioni professionisti e docenti a livello accademico.

Varis H. Bokalders, Architetto, docente presso la School of Architecture, Dept. of Architectural Design and Technology, Royal Institute of Technology di Stoccolma nel numero del mese di luglio 2000 della rivista "L’architettura naturale", presentava una check-list chiamata “L’albero del costruire ecologico” come strumento per la progettazione sostenibile che elencava e metteva in relazione gli elementi di cui bisogna continuamente tenere conto mentre si elaborano le soluzioni progettuali fungendo da pro-memoria. La rappresentazione ad albero era costituita da un tronco che, collegato alla terra da 4 radici, si divideva in 4 branche. Le branche a loro volta si sviluppano in 4 rami, ognuno dei quali dà infine vita ad altri 4 “virgulti”, per un totale di 64 rametti. 

La partita più importante si gioca però sul campo della gestione dei rifiuti a causa dell’aumento costante della quantità che una comunità urbana si trova a dover smaltire quotidianamente. Mediamente, i "rifiuti non tradizionali" sono costituiti da materiali ad alto contenuto energetico e la loro trasformazione, a parte i pesanti costi per la raccolta ed il trasporto ai centri di trattamento, se talvolta può essere vantaggiosa in termini economici, non lo è quasi mai in termini ecologici, a causa del ben noto fenomeno della non degradabilità biologica. In termini di territorio complessivo, poi, dobbiamo tenere conto dell’enorme quantità di rifiuti speciali che devono essere smaltiti in impianti specializzati.
Ma la sfida non è soltanto tecnologica. La questione ecologica si incentra anche su questioni economiche e sul mutamento di determinati stili di vita nonché del modo di gestire le risorse finanziarie pubbliche ma anche quelle private. 

Secondo Khor (1992) “Uno dei problemi principali della pianificazione è il suo costo. E più vasto è il progetto, più grande, sembra, deve essere l’onere finanziario.. la conseguenza è che, sebbene ci siano molti argomenti in favore dello sviluppo simultaneo e polinucleare di una moltitudine di città rivali contratte a misura di pedone, in unica area metropolitana, questo può essere impedito dall’impossibilità di reperire i fondi necessari. Tuttavia, non è tanto la portata del progetto di rinnovamento urbano ad essere costosa, quanto le numerose rettifiche per adattarlo a una città in continua crescita. A ogni incremento aritmetico dell’espansione urbana, corrisponde un aumento dei costi dalle proporzioni geometriche davvero proibitive. Così,…la spesa addizionale prevista per crearele ulteriori infrastrutture per automobili, autobus, parcheggi e autostrade necessarie per far circolare su strada soltanto 50.000 pendolari (che … arrivano ogni giorno a Filadelfia su una sola delle molte linee suburbane della città da una distanza massima di dodici miglia e da una distanza media di forse non più di sette) ammonterebbe all’incredibile somma di un miliardo di dollari tondo tondo” (Khor, 1992).

Chiaramente l’esempio fatto da Khor vuole essere una provocazione per introdurre l’idea che probabilmente sarebbe necessario passare da una espansione della città compatta ad una contrazione. Essa si basa sulla considerazione che “…la stessa forza che fa aumentare i costi in proporzione geometrica a ogni aumento aritmetico dell’espansione urbana, provoca una riduzione geometrica dei costi per ogni riduzione aritmetica verificatasi in quell’area” e che questi ultimi sono “…per loro natura non solo facilmente sostenibili ma addirittura autofinanziati, perché coperti dallo stesso processo di contrazione”. (L’autofinanziamento e la precisa valutazione delle potenzialità sinergiche di investimenti pubblici e privati verranno ripresi nella seconda parte quando si parlerà di visioning proponendo un esempio concreto.) 

Tutto ciò non è assolutamente in contrasto con l’uso allargato del territorio proposto dal Progetto Ambientale ed è pure in sintonia con posizioni eminenti del mondo economico che teorizzava quella new economy che niente ha a che fare con lo scippo di senso e significato operato dai nuovi mercati, i quali, preso atto dei limiti fisici di questo nostro piccolo mondo, si gettano nella realtà virtuale della rete dove si tenta di ricreare l’illusione di una nuova crescita senza limiti. 

Questa nuova utopia si sposa facilmente con la falsa democraticità di Internet dove si è visibili solo se si possiedono i mezzi e dove investimenti di dimensioni esorbitanti si misurano già con perdite altrettanto ingenti. 

Per la comunità locali si tratta non di voltarsi al cambiamento, ma di “….acquisire la disponibilità ad entrare a far parte in modo attivo di circuiti sempre più vasti di interscambio e di comunicazione e la capacità di intrecciare un effettivo rapporto dialogico con i partner più diversi, senza per questo perdere le caratteristiche basilari della propria identità” (Tagliagambe, 1996). Il #Pianificatore gioca un ruolo fondamentale nell’innescare questo processo.

L’evoluzione della pianificazione ambientale ci proietta dunque in una dimensione ad alta complessità nella quale gli elementi in gioco hanno tutti un peso determinante e la figura del planner si riveste di nuovi significati man mano che egli estende le sue competenze alla dimensione comunicativa. Questa evoluzione ha radici nei primi anni ’60, quando gli studi di Fernando Clemente hanno evidenziato la relazione tra le dinamiche di sviluppo e politica sociale, la cura dell’ambiente e del territorio arrivando negli anni ’80 a consolidare la scuola del Progetto Ambientale.

1.4 Gli obbiettivi della ricerca

All'interno di queste dinamiche le ricerche sulla evoluzione degli spazi insediativi e delle economie a livello globale prospettavano scenari in cui si precostituivano le condizioni per sconvolgimenti di tipo fisico e sociale a livello locale conseguenti ai nuovi equilibri a livello mondiale (Sassen, 1994, 1996, 1998) che stavano e avrebbero sempre più determinato una sostanziale predominanza dei flussi di prodotti, persone e informazioni come causa generativa di nuove dinamiche della dimensione fisica delle Città (Mitchel, 1995).

Le reti telematiche e Internet stavano rapidamente trasformando le caratteristiche della società ed i rapporti tra gli individui, tra i gruppi, tra le informazioni, che si delineavano sempre più attraverso relazioni complesse e nuove dinamiche identitarie da decifrare (Castells, 1991, 1996, 1997, 2000) secondo dinamiche guidate dall'irrompere delle Nuove Tecnologie dell'Interazione e Comunicazione (NTIC) non necessariamente da considerare aprioristicamente positive (Maldonado, 1997).

Al tradizionale incontro/scontro tra culture a tutti i livelli delle attività umane racchiuse nei centri di potere delle Città Globali e non, che avveniva secondo i tempi dei media tradizionali si stava preparando una stagione di straordinaria accelerazione della comunicazione e interazione che avrebbe stravolto a livello mondiale i paradigmi precedenti senza peraltro dimostrare un reale e utile contributo alla soluzione delle problematiche della pianificazione tuttora oggetto di ricerca di soluzioni.

In tale contesto teorico e culturale, in cui per il processo di piano si prospettava la necessità di confrontarsi con la sua dimensione comunicativa ed interattiva secondo modalità accelerate e potenziate dall'avvento delle NTIC, era chiaro che:
  • la Ricerca avrebbe dovuto cercare di dare risposte in merito a quali sarebbero stati gli esiti e le differenze dell'#Interazione operante su due livelli, quello classico off-line, in presenza, e quello on-line mediato dal web e quali indicazioni di tipo disciplinare ed operativo potevano emergere da tale osservazione anche in riferimento al ruolo e alle abilità richieste al #Pianificatore;
  • per raggiungere tale obbiettivo sarebbe stato necessario superare alcuni limiti epistemologici evidenti dell'intero impalcato teorico del #ProgettoAmbientale.
Tale obbiettivo e l'estrema rilevanza del tema dell'utilizzo del web e delle sue applicazioni, che già allora offrivano strumenti potenti seppur poco sofisticati, di fatto anticipavano l'attuale dibattito legato all'utilizzo del #Web e dei #SocialMedia nella manipolazione delle #SocialNetwork attraverso le quali si svolgono sempre di più molte delle funzioni di costruzione di senso e consenso, ponendo comunque diversi limiti ed interrogativi in termini di #DemocraziaDiretta o in altri termini di #eDemocracy.

2. #Teoria, #Pratica, #Risultati

“…non dovremmo considerare la nostra conoscenza come un possesso, grazie al quale sentirci al sicuro e che ci conferisca la coscienza della nostra piena identità; non dovremmo essere «pieni» della nostra conoscenza, né aggrapparci a essa, né bramarla; la conoscenza non dovrebbe assumere la qualità di un dogma che ci rende schiavi. Tutto questo appartiene infatti alla modalità dell’avere. Secondo la modalità dell’essere la conoscenza non è null’altro che l’attività di penetrazione del pensiero senza che ciò diventi mai un invito a restare immobili allo scopo di raggiungere così la certezza .”

Erich Fromm (1977), Avere o Essere?, Mondadori, Milano


Benché, come già detto, è alla fine degli anni '90 che la Scuola del #ProgettoAmbientale, fondata a Cagliari da Fernando Clemente e della quale raccoglieva l'eredità Giovanni Maciocco, raggiungeva l'apice del proprio percorso di ricerca, sia in termini di pubblicazioni, sia in termini di mobilitazione culturale, è nel ventennio precedente che si creano le basi scientifiche ed epistemologiche che lo caratterizzano. 

In particolare, negli anni ‘60 Fernando Clemente formula i concetti di unità insediativa e ambientale, concetto innovativo anche per  il decennio seguente che determina l'inizio del consolidamento di quell'orientamento teorico per il quale natura e storia, forma e senso, ambiente e sviluppo, diventano componenti interdipendenti, e di luogo come “spazio denso nel quale una comunità si autorappresenta, dove si addensano significati e depositano valori”. 

A seguire, negli anni ’70, la ricerca delle peculiarità e delle differenze dei luoghi si estende dal  livello storico-ambientale, andando ad abbracciare quello relazionale, fino ad arrivare agli anni ’80 durante i quali la Scuola assume un’identità precisa e riconoscibile, che si sviluppa attorno al concetto di #ProgettoAmbientale definito come:

forma d’azione di una comunità che costruisce il proprio ambiente di vita attraverso processi ai quali il progettista partecipa, contribuendo con il suo sapere tecnico specifico e la sua intenzionalità etica a conseguire esiti condivisi sull’organizzazione dello spazio insediativo

Tale forma di azione avviene a partire dalla esplorazione e riconoscimento delle seguenti componenti strutturali del territorio:
  • le #DominantiAmbientali, entità di carattere fisico territoriale, ma anche sociale, storico ed economico, in cui si esprime un rapporto storicamente consolidato tra popolazione, attività e luoghi;
  • #CorridoiAmbientali, elementi lineari in corrispondenza dei quali è possibile individuare una maggior concentrazione di funzioni, risorse e relazioni rispetto al territorio attiguo.
  • #LuoghiDensi, sede di flussi, di persone, di valori condivisi e di cose la cui densità deriva dall’essere espressione del rapporto con la collettività che li percepisce e li vive. 
Il #Coinvolgimento delle #SocietàLocali diventa un momento dialettico in cui si tenta di costruire scenari condivisi, mondi possibili, che non sono irreversibilmente fissati, ma permeabili al cambiamento e perciò capaci di lasciare direzioni percorribili per l’immediato futuro in tutta la loro Pertanto il #ProgettoAmbientale
  • aiuta a svelare la vera #DimensioneLocale promuovendo attività basate sul riconoscimento delle #Risorse e della #ConoscenzaContestuale concorrendo alla rappresentazione dello spazio in cui si manifesta l’identità di una comunità, spazio inteso come “contenitore” di luoghi significativi e dei loro nessi relazionali. In questo modo il #SapereComune e la #ConoscenzaContestuale prodotta dalle #ComunitàLocali, acquistano sempre più centralità nel processo di piano, al quale partecipano promuovendo l’elaborazione di #ImmaginiSpaziali e costruendo la piattaforma sulla quale si esplica il rapporto tra la fase conoscitiva e quella attuativa;
  • rappresenta sia l'azione congiunta, in cui il #Pianificatore partecipa favorendo, con il suo #SapereTecnico e la sua #IntenzionalitàEtica, una presa di coscienza collettiva relativamente al riconoscimento delle componenti strutturali del territorio prima citate, sia lo strumento in grado di intervenire sui processi, allo scopo di incentivare gli elementi di potenzialità e l'#IntelligenzaCollettiva di un territorio, inibendo invece gli elementi di crisi, in modo da costruire un ventaglio di opportunità di utilizzo delle risorse che tenga conto del sistema ambientale.
Il #ProgettoAmbientale rappresenta una differente cultura della progettualità incentrata sulla valorizzazione dell’alterità e delle differenze, della soggettività e della processualità piuttosto che sull’omologazione e l’appiattimento sulle tecniche e le analisi puramente quantitative che hanno posto in crisi le discipline progettuali classiche, incapaci di interpretare le dinamiche socio-territoriali.

Tali caratteristiche emergono con evidenza alla luce della sua evoluzione storica ed è possibile sintetizzarne come segue i requisiti progettuali che devono caratterizzare il processo di pianificazione e di progettazione per essere coerenti con i suoi presupposti: 

Contestualizzazione: ossia la capacità di collocarsi in un contesto territoriale rappresentato dalla relazione tra l’evoluzione delle componenti naturali insite nel territorio e le modalità con cui le popolazioni locali si sono radicate nei luoghi attraverso tradizioni, forme di socialità, cultura ed economie che rendono ogni realtà locale unica ed irripetibile.
Lo sviluppo socio-territoriale investe i luoghi con dinamiche di crescita e di crisi che il progetto deve riconoscere e affrontare, analizzandone le peculiarità in relazione alle problematiche e alla potenzialità che il contesto offre. Nel processo di piano il criterio della contestualizzazione acquisisce, perciò, sia le caratteristiche di strumento per la progettazione, sia quelle di elemento per la sua valutazione.Il progetto deve, quindi, definirsi e relazionarsi con gli aspetti contestuali del territorio e della socialità creando un nuovo contesto progettuale nel quale proporsi e agire.Soprattutto deve tener conto non del solo sapere tecnico, ma anche del sapere comune degli uomini che abitano un determinato territorio. 
La contestualizzazione si riferisce, inoltre, alla capacità di esperire l’alterità che consiste nel riconoscimento e nella valorizzazione delle differenze nel tentativo di aprire il processo di piano al più grande ventaglio di possibilità. Nel progetto ambientale i presupposti per la crescita e l’acquisizione di conoscenza sono date dal riscontro delle differenze. 

Reversibilità: ossia la capacità del progetto di porsi in modo che le alterazioni sul territorio non producano effetti irreversibili consentendo al sistema ambientale di riportarsi ad una condizione capace di sviluppare nuove possibilità di crescita e fruibilità. Anche il criterio della reversibilità diventa perciò, da una parte, uno strumento di progettazione, dall’altra un elemento per la sua valutazione poiché consente di ripercorrere le vecchie direttrici del piano costruendone di nuove abbandonando, quindi, quelle che non hanno generato esiti coerenti.
La reversibilità delle azioni progettuali e di piano sul territorio consente di non “bruciare possibilità” e di promuovere dinamiche capaci di rigenerarsi, evolversi e riorganizzarsi in relazione ai mutamenti sociali, economici e territoriali. Quindi il progetto deve sviluppare caratteristiche di non risolutività, nel senso che non si prestabilisce una forma, uno stato finale definitivo, ma si lasciano aperte diverse opportunità. Il requisito di non risolutività del progetto consente di superare una visione orientata alle trasformazioni territoriali come ontologicamente date, per esplorare possibilità evolutive della realtà partendo da campi problematici per affrontare i quali, differenti soggetti si incontrano e si auto-organizzano, gestendo processi comuni di evoluzione del territorio attraverso un impegno reciproco . 

Processualità: ossia la capacità del progetto di costruire, attivare e favorire i processi e le potenzialità del territorio, non progettando le forme, ma le forme-processo. Il complesso delle risorse ambientali che determinano lo svolgimento di attività specifiche e consolidate di una comunità locale, devono essere studiate secondo un approccio progettuale attento ai processi in atto nel territorio attraverso l’attivazione di processi di relazione fra le popolazioni e le risorse del territorio;la promozione di processi alternativi rispetto a pratiche scorrette di utilizzo delle risorse che possano evitare processi di degrado e di obsolescenza di specifiche risorse ambientali non rinnovabili.
Il progetto ambientale promuove un concetto di processualità che stimola maggior attenzione verso uno stile progettuale che produca non solo forme fisse, chiuse, ma anche forme processo quali: la rigenerazione di una risorsa ambientale; la creazione di processi di comunicazione fra comunità locali per la soluzione di problemi comuni; l’attivazione di processi economici basati sul corretto impiego delle risorse non rinnovabili;

Cooperazione: è la capacità del progetto di introdurre ed attivare processi dinamici di cooperazione ed interazione fra soggetti sociali per la soluzione di problemi comuni ed il miglioramento delle condizioni locali, mirando alla costruzione di nuove figure socio-territoriali, che si prendono cura del territorio.Il progetto, allora, percorrerà direttrici utili a favorire rapporti interattivi e cooperativi tra i vari attori definendo diverse modalità dell’agire progettuale:
- l’attivazione di forme collaborative fra soggetti territoriali e sociali; 
- l’introduzione di nuove modalità interattive di utilizzo e gestione delle risorse ambientali;
- l’utilizzo di nuove tecnologie per trasferire e valorizzare le culture locali;
- la creazione di processi di apprendimento collettivo ottenuti attraverso scambi di conoscenze, informazioni e tecniche;
- la promozione di nuove professionalità integrate per la salvaguardia e la tutela dell’ambiente;
- lo sviluppo di nuove forme di socialità e di solidarietà sociale favorendo l’interazione delle diverse fasce demografiche nei singoli contesti locali.
Il progetto deve cercare di introdurre elementi collaborativi e di interazione legandoli all’applicazione di tecniche, sistemi e modelli produttivi, conoscenze delle pratiche d’uso, di gestione e di promozione delle risorse e alla formazione e valorizzazione delle risorse umane con azioni di scambio e confronto tra sapere tecnico e sapere comune.

Innovazione: ossia la capacità del progetto di introdurre elementi innovativi elaborando culture, saperi, forme, risorse in modo diretto. Il progetto, si relaziona alla dimensione ambientale, sociale e culturale di un territorio, in termini di rispetto e attenzione rielaborando, però, in modo inedito le tradizionali tecniche di produzione, l’utilizzo delle risorse ambientali e associando ai saperi locali nuove tecnologie utili anche alla valorizzazione delle culture locali stesse.
L’introduzione di nuovi elementi collaborativi, come tecniche, materiali, sistemi energetici, modelli produttivi, conoscenze delle pratiche d’uso di una risorsa, costituiscono lo slancio innovativo del piano che nel rispetto dei luoghi e delle loro potenzialità consente di esplorare possibilità inedite di fruizione degli stessi.

Dunque, muovendo da una concezione risolutiva verso una più complessa dell’orientamento progettuale il #ProgettoAmbientale affronta non soltanto i problemi direttamente legati alla modificazione dell’ambiente fisico, ma anche quelle riferite all’azione di società territoriali che costituiscono il proprio ambiente attraverso l'organizzazione consensuale e condivisa dello spazio territoriale e sociale che si fonda su ipotesi di soluzione orientate alla gestione dei processi significativi, creando nuove forme di contrattualità e di interazione e innescando processi autogestionali, non chiudendo possibilità, ma aprendone continuamente di nuove.

Tale approccio sviluppatosi in un contesto di sempre maggiore attenzione nei confronti dell’ambiente fisico diviene un modello col quale affrontare anche la crisi della socialità urbana e territoriale misurabile nella caduta dei paradigmi tradizionali a seguito dello smantellamento dello Stato tradizionale come unico centro erogatore ed i servizi e che faceva riferimento ad un concetto di infrastrutturazione della socialità di matrice ottocentesca e novecentesca.

Il #ProgettoAmbientale rappresenta un approccio utile a dare una risposta:
  • alla crisi dell'ambiente e della socialità urbana in quanto orientato ad intercettare tutte le forme di socialità emergenti coinvolgendo quei soggetti che non hanno voce, ma che potranno avere rilevanza nel progetto della città; 
  • alla convinzione, falsa ma diffusa, per la quale la crisi ambientale si possa affrontare attraverso misure di gestione speciale della tutela, magari caratterizzate dall'utilizzo pervasivo delle tecnologie e che sono da riservare solo a situazioni particolarmente meritevoli sotto il profilo dei valori ambientali;
soprattutto ed in particolare in tutti quei casi di perdita della territorialità umana determinata dal degrado dei luoghi dovuto a problemi di contaminazione, di inquinamento, di congestione a tutti quei problemi in un certo senso non risolti da sapere tecnico; ma anche a casi di degrado e perdita di identità dovuto alla importazione sia di modelli insediativi estranei al senso del luogo, sia a seguito della applicazione di ricette economiche proprie di modelli esterni non rielaborati localmente; sia, infine, perché insularizzato, ridotto ad un sistema chiuso che gradualmente portare alla lacerazione del tessuto di relazioni territoriali.

La base di partenza costituita dall'armamentario teorico del #ProgettoAmbientale non poteva essere sufficiente a superare gli ostacoli teorici e pratici che la costruzione di un ambiente di interazione multidimensionale comportava. Né era risolta la questione di quali strumenti pratici e qualità personali il #Pianificatore dovesse disporre creare il sistema relazionale ed interattivo capace di fare emergere le immagini spaziali degli abitanti, per dispiegare la sua intenzionalità etica e per osservare ed operare all'interno del sistema relazionale stesso, mantenendo la pretesa della rigorosità scientifica insieme alla consapevolezza che un punto di vista situato all'interno del sistema osservato finisce comunque per perturbare il sistema stesso.

Pertanto, si è proceduto alla costruzione di una base epistemologica relativa alla #Interazione nella dimensione off-line e on line partendo:

  • dalla rielaborazione delle esperienze centrate sulla comunicazione, sulla cooperazione e sull’interazione, riconducibili alle note posizioni dell’Equity Planning (Krumholtz, Forester, 1990; Krumholtz, Clavel, 1994; Metzger, 1996), dell’Insurgent Planning (Douglass, 1999; Friedmann, 1999; Lane, 1999; Singh, Titi, 1995; Weissberg, 1999) e dei programmi di ricerca sulla pianificazione collaborativa e comunicativa di Patsy Healey (1989; 1996, 1997; 1998; 1999) 
  • esplorando le risorse della Sociologia Spazialista (Goffman, 1971a, 1971b) e l'approccio epistemologico di tipo sistemico-relazionale (Bateson, 1976; 1984; Watzlawick et.al., 1971), sono stati messi in correlazione al fine di identificare positive ricadute e significati teorici e pratici per la pianificazione interattiva territoriale off-line e 
  • dalle allora più recenti teorie ed esperienze nel campo della Computer Mediated Communication (CMC) che stava rivoluzionando le modalità classiche di comunicazione in riferimento alla trasformazione e differenziazione degli spazi e delle relazioni temporali al loro interno, introducendo due distinzioni fondamentali (Cecchini, Vania, 1999): presenza fisica (o reale) e presenza virtuale (o telepresenza); tempo reale (sincronia) e sfasamento temporale delle comunicazioni (asincronia).

Inoltre, per affrontare e superare i limiti e le restrizioni legate ai canoni tradizionali della ricerca, ed in particolare la separazione tra “ricercatori” e "soggetti della ricerca", ci si è orientati ad uno dei paradigmi disciplinari emergenti nel campo delle Scienze Sociali conosciuto con il nome di #RicercaAzione, una metodologia ispirata alle esperienze di Collier e alle teorie di Lewin, ma formalizzata dal Tavistock Institut of Human Relations.

Infine, per quanto riguarda gli strumenti pratici necessari per strutturare dei processi nei quali la comunicazione, la trasparenza del processo e la circolazione ed elaborazione delle informazioni giocano un ruolo fondamentale per la co-costruzione di immagini spaziali aventi un valore progettuale reale, dopo l'analisi di numerose tecniche e metodologie si è optato per il
#CommunityVisioning come metodologia suscettibile di essere inserita all'interno di una metodologia più ampia e articolata.


Figura 5


Nel seguito ciascuna delle componenti sopra sintetizzate viene esplicitata al fine rendere il più chiaro possibile lo sfondo teorico che ha finito per determinare la progettazione del percorso pratico ed i suoi risultati.

2.1 Un approccio #Transvergente all'interno del quadro epistemologico del #ProgettoAmbientale

2.1.1 Il #Piano come Processo Comunicativo ed Interattivo e il ruolo centrale della figura del #Pianificatore.

Come ricorda Balducci (1991), uno dei tentativi più significativi degli anni ‘80 di rileggere la storia della pianificazione in senso comunicativo, è stato proposto da John Friedman che analizza la crisi dell’ambito disciplinare facendo riferimento al divario fra conoscenza e azione che si esprime nei fallimenti della pianificazione.

A tal proposito, Friedman (1993) identifica tre cause principali:
  1. La crisi della conoscenza legata ai fenomeni sociali e al filone positivista ispiratore delle certezze in ambito pianificatorio;
  2. Il continuo cambiamento dovuto al cambio di ritmo degli eventi storici che fa sì che i piani siano obsoleti prima ancora di essere attuati;
  3. I problemi relativi al degrado ambientale, alle difficoltà di governo delle megalopoli, al rischio nucleare e allo sfruttamento eccessivo delle risorse.
La crisi è quindi riscontrabile in ambiti ben più ampi e relativi al sistema politico ed economico e alla loro incapacità di affiancare lo sviluppo dell’economia al soddisfacimento dei bisogni dei popoli e la soluzione a questi problemi è individuata dallo stesso Friedman nella mobilitazione dal basso in quanto “è il nostro stesso istinto di sopravvivenza collettivo che ci porta ad affermare come progetto guida il riscatto della comunità politica dalla dominazione del capitale e dello stato”.

Pertanto il #Pianificatore deve focalizzare la sua attenzione sui problemi specifici delle persone, (lavoro, casa servizi, ecc) e per fare questo deve sviluppare particolari doti di comunicazione, di analisi, di gestione delle dinamiche di gruppo oltre a solide conoscenze tecniche e di sintesi

È importante, quindi, che il tecnico si affidi ad una teoria dai requisiti base solidi, quali:
  1. un linguaggio significativo che faciliti i rapporti con le persone;
  2. un’attenzione particolare a quelle variabili costitutive per la trasformazione del sistema;
  3. un approccio che consenta un facile adattamento della teoria alle situazioni contingenti.
Friedman (1993) afferma che “il cambiamento sociale non può che passare attraverso la mobilitazione di piccoli gruppi” e anche per questo motivo che la sua argomentazione teorica ruota attorno al tema del locale, infatti, “solo a livello locale è possibile afferrare il concetto di bene collettivo”. Il territorio è visto come proprietà collettiva solo attraverso l’azione e il coinvolgimento del pianificatore che per cogliere il concetto di “bene collettivo”, appunto, deve cercare di svelare le connessioni tra le diverse aspirazioni degli uomini, che rappresentano il quadro di relazioni tra individui e comunità locale. Viene messa, così, in evidenza l’impossibilità di pianificare al di fuori del concetto di “bene collettivo”. E’ solo attraverso il dialogo che è possibile calare questo concetto nell’uomo in relazione con altri uomini e, di conseguenza, il pianificatore deve dialogare con la comunità in maniera diretta e circoscritta, per capire le relazioni e i rapporti tra i molteplici desideri delle persone. 

Secondo Friedman (1993) “la vita umana viene esperita a tre diversi livelli che interagiscono fra loro; quello della individualità o del Sé che ricerca la sua espressione e sviluppo differenziato; quello della comunicazione dialogica o diadica in piccoli gruppi come la famiglia, gli amici o i compagni di lavoro; e quello dell’esperienza politica collettiva, dove il Sé è inteso come facente parte di un tutto che ha l’autorità di stabilire alcune regole comuni in grado di sovrastare il desiderio individuale. Per quanto in tempi differenti ciascuno di questi livelli può essere riguardato come primario”.

A tal proprosito Balducci (1991) ricorda come il "progetto sociale" di Friedman, che notava come a partire dall’800 si siano evolute diverse linee di pensiero sulla programmazione della vita degli uomini arrivando a trovare nuove infrasrutturazioni che la comunità deve darsi per evitare il libero arbitrio, si sviluppi attraverso quattro “arene”:
  1. La famiglia
  2. La comunità locale
  3. La periferia contadina
  4. La comunità globale
Quest’ultimo promuove una concezione che riconfigura il ruolo del #Pianificatore riconoscendo le sue effettive possibilità nel processo di piano. Egli punta sua alcuni sistemi che gli consentono di ottenere un’ampia mobilitazione di gruppi sociali rivolgendo l’attenzione su questioni generalmente oscurate. Il compito del planner è quello di porre buone domande per consentire una riconfigurazione dei problemi, posizione questa che viene definita dialogica-comunicativa e spesso messa in relazione con quella conversazionale di Forester (1989).

Balducci (1991) sottolinea come Forester si apra  alla dimensione comunicativa dell’azione pianificatoria osservando, riguardo al tema dell’efficacia, che “se la funzione simbolica e comunicativa della pianificazione non è un corollario dell’azione di piano, ma è parte integrante della sua stessa sostanza, una valutazione dell’efficacia che si arresti all’osservazione degli esiti dell’azione strumentale, rischia non solo di centrare l’attenzione sugli aspetti meno rilevanti del processo di piano, ma di essere tautologica; il piano è per definizione inattuabile nel senso del conseguimento degli obiettivi enunciati, mentre è importante valutare un’altra dimensione dell’efficacia, quella della definizione dei contesti problematici e dello spostamento dell’attenzione attorno ai problemi”.
Nonostante la relazione tra le due posizioni, il fine di Friedman, però, è molto diverso da quello di Forester in quanto quest’ultimo sotto il profilo etico promuove il passaggio al nuovo filone dell’epistemologia dell’azione, nella prospettiva di organizzare e strutturare la pratica pianificatoria dal punto di vista della correttezza del metodo scientifico perché il piano sia efficace a prescindere dai valori, ponendosi come obiettivo la realizzazione del consenso, cioè cercando di mettere tutti d’accordo

Friedman, di contro, si pone nella posizione dell’intellettuale moderno che non ha interesse a che la comunità prenda coscienza di valori che lui stesso dovrà andare a scoprire confrontandosi con la comunità stessa. Da questa punto di vista la distanza tra i due diventa profonda proprio perché Friedman non persegue solamente il consenso, ma anche la condivisione e l’azione atta a favorire la co-costruzione di valori che egli stesso scopre, attraverso il dialogo, e che arriva a chiamare “bene collettivo”. 

Forester applica il concetto di razionalità limitata alla pianificazione che punta a raggiungere un risultato soddisfacente con gli strumenti del planner; Friedman, invece, entra nella sfera dell’etica e della legittimazione sociale, accedendo ad una vasta gamma di valori che identificano la comunità. Il suo approccio prevede che i suoi stessi valori vengano messi a confronto con quelli della comunità che tuttavia può essere inconsapevole di averli. E’ per questi motivi che il dialogo deve essere diretto e per esserlo ha bisogno di una “comunità piccola”. Il territorio, dunque, viene considerato come soggetto e non più come un oggetto che si adatta alle diverse esigenze pianificatorie.

E’ importante, a questo punto, considerare la legittimazione della funzione del planner quale interlocutore all’interno della comunità e tra le comunità. Questa legittimazione prefigura il passaggio della pianificazione dall’azione effettiva verso la sfera dell’etica e della legittimazione sociale ed è per questo motivo che, in Friedman, questa posizione viene chiamata interlocutoria.

Riassumendo la pianificazione nell’ottica di Friedman:
  1. Dialogica nel senso che la pianificazione avviene attraverso il dialogo in piccole comunità in cui è identificabile il concetto di “bene collettivo”;
  2. Comunicativa perché avviene attraverso la comunicazione e il confronto;
  3. Interlocutoria perché la funzione del pianificatore deve tendere a favorire l’interazione all’interno della comunità e fra comunità diverse.
Rittel e Webber (1973) ipotizzavano, nei loro “problemi maligni”, l’impossibilità per il pianificatore di risolvere alcune problematiche quali quelle legate alla vita delle comunità in cui è totalmente assente la relazione con lo spazio fisico. Friedman, invece, parla di “nostalgia del luogo”, in cui “la vita delle comunità è strettamente legata allo spazio fisico che la influenza e che considera il luogo non più solo come ambiente fisico, ma come insieme di valori e di risorse legate alla vita della comunità che lo ha a cuore”.

Forester a differenza di Friedman studia effettivamente il metodo scientifico per affrontare l’azione pianificatoria in modo da ottenere risultati efficaci sul territorio e la comunità che lo abita. Diventa fondamentale, nel discorso di Friedman, il coinvolgimento personale ed etico del pianificatore di fronte ad un ambiente sociale che esige da lui un coinvolgimento totale. Questa legittimazione porta il pianificatore a cercare quei soggetti che non hanno voce per coinvolgerli in un processo cooperativo di piano. (Maciocco, 1995a)

Le esperienze di Forester e Friedman hanno costituito, e costituiscono tutt’oggi, dei punti di riferimento fondamentali per i tecnici che si cimentano con processi pianificatori in cui diventa fondamentale interagire con le comunità locali. Le doti tecniche del planner vengono affiancate anche da doti umane rivolte al processo co-costruttivo e interattivo che caratterizza l’incontro con i portatori del sapere comune. In questo modo diventa possibile uno sviluppo “sostenibile” e “durevole” capace di attivare processi di crescita cooperativa tra le risorse, le comunità e i luoghi.

Questa concezione, sempre meno rappresentazionale e più costruttiva del progetto, spinge alla ricerca di mondi possibili proponendo una nuova cultura della progettualità fondata sui valori dell’alterità, del confronto, della non risolutività delle tecniche e della valorizzazione della soggettività.

L’obiettivo primario del progetto, nella pianificazione comunicativa, dovrebbe essere quello di praticare il dialogo con i diversi attori, e di rigenerare le tecniche favorendo il pensiero divergente, utilizzandole per cooperare e comunicare con i portatori del sapere comune.

La storia sociale e personale degli abitanti di un territorio, diventa la cornice del contesto in cui aspettative, desideri, mondi percettivi si mischiano per costituire le radici della relazione progettuale. Il territorio diventa una “condizione umana” in cui si esprime il rapporto di lunga durata tra le popolazioni che si raccontano attraverso il dialogo e la cooperazione in un processo di piano che li vede protagonisti diretti e attivi portatori del sapere locale.

Il #Piano si configura come un #SistemaAperto, in cui le tecniche dialogano tra loro e con gli uomini, e lo spostano da una condizione di “soliloquio disciplinare” (Maciocco, 1995a) ad una dimensione di scambio e confronto tra i diversi portatori del sapere tecnico e di quello comune.

Il #Territorio si configura quindi come “luogo delle differenze”, intese come potenzialità che ogni singolo soggetto può mettere in gioco nel processo di pianificazione. 
Il #Pianificatore deve, dunque, svolgere un importante ruolo di comunicatore e mediatore per condividere informazioni utili alla negoziazione e al riconoscimento reciproco.

Gli attori con i quali il pianificatore si confronta sono soggetti territoriali che rappresentano il contesto sociale e sono portatori di interessi specifici infatti essi possono variare a seconda dei campi problematici o potenziali a cui il piano si rivolge.

Da punto di vista sociologico secondo Mela (1990) la #PianificazioneComunicativa si impegna nel delimitare uno specifico ambito di intervento “…e individuare contestualmente una o più reti di soggetti interagenti, all’interno della quale (delle quali) il problema stesso emerga in quanto espressione di un bisogno o di un’esigenza sociale e diventa oggetto di comunicazione nell’ambito di una interazione”. Si configura, così, una figura di professionista eclettico attivamente impegnato in un’azione comunicativa e collaborativa che fa del processo di piano una condizione nella quale immergersi nell’ottica di un continuo scambio, in cui i diversi interlocutori imparano facendo

Queste nuove modalità della pratica pianificatoria sottolineano il passaggio dalla fase di crisi della pianificazione a quella di un nuovo sviluppo, e definiscono il nesso tra il #Piano, inteso come processo comunicativo di Friedman e Forester e il #ProgettoAmbientale di Clemente e Maciocco.

La #PianificazioneTerritoriale, dunque, si dispiega all'interno di un processo di piano interattivo in cui discipline come quelle sociologiche, storiche e delle scienze della comunicazione, acquistano sempre maggiore importanza consentendo al progetto di definirsi attraverso specifici metodi interattivi propri dell’esperienza sul campo, quindi, all’interno di quella dimensione spazio temporale off-line.

L’evoluzione delle posizioni disciplinari della #Pianificazione, soprattutto quelle più recenti, mostrano una sempre maggiore attenzione agli aspetti comunicativi tra i differenti attori, direttamente o indirettamente coinvolti nei processi di pianificazione, nell’intento di superare alcuni limiti all’efficacia della pianificazione stessa, di cui si è precedentemente trattato.

Nelle righe precedenti sono state sintetizzate alcune posizioni rilevanti nella teoria della pianificazione recente che hanno affrontato il tema della “costruzione del consenso”: da un lato, l’approccio “conversazionale” di Forester (1989) in cui il compito del pianificatore è quello di anticipare il potere politico facendo leva sul proprio sapere tecnico con l’obiettivo di ottenere il consenso; dall’altro la concezione “interlocutoria” di Friedmann (1993), in cui l’azione deve, attraverso il dialogo, favorire la costruzione e quindi la condivisione dei valori che portano verso l’individuazione del bene collettivo.

La #Pianificazione, anche attraverso l’apporto del #ProgettoAmbientale si apre, quindi, alla dimensione etica e si configura maggiormente come “scienza sociale applicata” (Maciocco, 1995c) in cui il #Pianificatore non è più solo portatore del #SapereTecnico, ma anche della sua intenzionalità etica con cui attiva processi interattivi e comunicativi. Si parla, allora, di un nuovo modello comunicativo in cui il planner, insieme agli attori della comunità negoziano una realtà di significati.

Il pianificatore deve, dunque, svolgere un importante ruolo di “progettazione della comunicazione” (Windahl, 1992) dove “la comunicazione è un processo in cui i partecipanti creano e condividono informazioni allo scopo di raggiungere una comprensione reciproca.” (Rogers, 1981). L’arena di confronto tra il planner e gli altri attori, definisce il contesto relazionale del processo di piano in cui i soggetti territoriali vedono rappresentati i loro interessi.

#Pianificazione, #Interazione e #SociologiaUrbana

Nella teoria sociologica “classica” il concetto di interazione si riferisce alle dinamiche di incontro che si realizzano tra due o più interlocutori. Tali dinamiche, di fatto, esplicitano la relazione che due o più soggetti costruiscono attraverso uno scambio a livello verbale o non verbale. 

L’interazione può svolgersi in modo consapevole o inconsapevole in un gioco dinamico entro cui gli attori modificano di continuo i rispettivi comportamenti, tenendo conto degli effetti retroattivi che questi hanno sul proprio interlocutore; in tal modo, ciascun soggetto può anticipare le risposte dell’altro e calibrare il proprio intervento dopo che queste vengono effettivamente agite.
In tale quadro l’interazione può essere caratterizzata da un sistema di regole diverse in funzione del contesto sociale in cui si è inseriti e tali regole vengono definite “proprietà situazionali” e ogni processo interattivo si  riferisce all’organizzazione di un sistema sociale, in una dimensione relazionale unica e inedita, secondo transazioni soggettive provviste di specifiche coordinate spazio-temporali e non solo alla semplice possibilità di comunicare (Goffman, 1969).

La sociologia spazialista, in questo senso, si riferisce all’analisi degli spazi personali nell’azione sociale, quindi la dimensione psicofisica dell’attore, il suo schema corporeo, i suoi “territori sociali” (Goffman, 1971a). Tale livello consente lo studio “dell’equipaggiamento relazionale” di cui ciascun individuo si avvale per promuovere la propria rappresentazione di sé alla comunità, muovendosi tra “scene di ribalta” e “retroscena” personali (Goffman, 1969).
Secondo Mela (1996) la più moderna sociologia spazialista circoscrive l’agire sociale in tre diversi livelli: microsociale, mesosociale e macrosociale.

Il livello microsociale riguarda i confini fisici e relazionali del singolo individuo posti in relazione con lo spazio sociale, mentre invece ciò che caratterizza l’ambito di indagine della pianificazione territoriale comunicativa riguarda lo studio delle relazioni e delle loro regole d’interazione all’interno di uno scambio comunicativo tra più soggetti che avviene a livello mesosociologico e macrosociale: quì lo scambio avviene attraverso una negoziazione di significati e di messaggi e dunque attraverso la mediazione di un codice di comunicazione condiviso e co-costruito dagli interlocutori coinvolti.

In particolare, a livello mesosociologico l’atto interattivo è inteso come la risultante di un’azione congiunta dei soggetti coinvolti nell’azione sociale.
A livello macrosociale, invece, è possibile individuare la rete di rapporti tra le diverse città e i diversi ambiti territoriali e, quindi, elaborare un’analisi dei grandi aggregati sociali: questo allargamento a una visione macroterritoriale rende possibile intuire la quantità e la qualità delle interazioni, osservando la densità della rete sociale stessa e l’intensità delle relazioni che la percorrono.

La coesistenza di questi sue livelli fa si che l’azione congiunta si concretizzi attraverso un processo interattivo di negoziazione che può avvenire “in compresenza” degli interlocutori, oppure “a distanza” (Mela, 1996) e in funzione “dell’occasione sociale” in cui gli attori si incontrano, l’interazione si realizza con le modalità e gli strumenti comunicativi definiti dal contesto relazionale (Goffman, 1971a).

Ai fini della ricerca e della progettazione delle modalità operative, le interazioni “in compresenza” e quelle “a distanza” sono state considerate sulla base della definizione di interazione “faccia a faccia” e d’interazione “strategica” della teoria sociologica di Goffman (1971b):
  • nell’interazione faccia a faccia l’incontro degli interlocutori è diretto e immediato, si avvale di un canale comunicativo verbale e non verbale all’interno del quale gli attori negoziano la propria immagine sociale e le proprie percezioni, secondo modalità spontanee e non strutturate;
  • L’interazione strategica, invece, è caratterizzata da una relazione razionale e distaccata in cui si stabiliscono rapporti di reciprocità simili a quelli presenti nelle “strategie di gioco”.
A differenza dell’interazione faccia a faccia, in quella strategica, la negoziazione dello scambio non è valutabile rispetto alla quantità dell’informazione, ma rispetto alla sua efficacia e questo aspetto la rende una modalità interattiva capace di attivare processi decisionali di tipo razionale e di coinvolgere gli interlocutori in un impegno dichiarato nella realizzazione di un’azione progettuale concreta. L’interazione strategica può essere a distanza e sebbene si perda una parte della qualità dell’informazione, attraverso una cornice sociale differente è possibile interagire con efficacia dal punto di vista pratico-strategico anche in modo mediato. Tale mediazione può avvenire per mezzo di un intermediario oppure per l’intervento di tecniche e tecnologie di comunicazione, come nel caso dell’interazione via Internet.

#Pianificazione, #Interazione e #TeoriaSistemica

L’interazione crea prima di tutto relazione e “la relazione è sempre il prodotto di una descrizione doppia”. (Bateson, 1984) Due parti interagenti creano una relazione fornendo separatamente due visioni distinte di ciò che accade nell’interazione stessa, e contemporaneamente una visione e quindi una comprensione binoculare di essa.

L’epistemologia della teoria sistemica offre un metodo conoscitivo di tipo qualitativo il cui oggetto di studio privilegiato, è l’interazione intesa come interrelazione; dunque favorisce la valutazione e lo studio delle dinamiche circolari proprie dei sistemi complessi e dei sistemi interattivi stessi.

Un sistema complesso si definisce secondo le proprietà dei suoi oggetti e dei suoi specifici attributi; gli oggetti corrispondono alle parti del sistema mentre gli attributi sono relativi alla qualità delle relazioni che tengono insieme il sistema stesso.

Gli oggetti dei sistemi interattivi non sono solo parti, ma “persone-che comunicano-con-altre-persone” (Watzlawick, 1971), e la qualità della loro relazione definisce la natura del processo interattivo stesso.

I sistemi interattivi hanno la caratteristica di essere dei sistemi aperti caratterizzati da dinamiche di scambio orizzontali e verticali, e da una serie di proprietà specifiche, qui di seguito riportate:
  1. Totalità: un sistema aperto è un Tutto inscindibile dove ogni parte è in relazione con le altre che lo costituiscono, cosicché, qualunque cambiamento in una singola parte causa una modifica in tutte le altre parti e nel sistema intero. Un sistema non può coincidere con la semplice somma delle sue parti; è più importante trascurare le singole parti per portare l’attenzione sulla qualità emergente data dall’interrelazione delle parti stesse che costituiscono il sistema in un organizzazione complessa. Le parti del Tutto stanno tra loro in un rapporto bidirezionale dove l’una influenza l’altra e viceversa.
  2. Retroazione: Retroazione e circolarità sono le dinamiche causali che uniscono le diverse parti di un sistema, poste in relazione reciproca da effetti di feedback e di condizionamento circolare, in cui non esiste alcun rapporto di causa-effetto secondo la più intuitiva logica lineare.
  3. Equifinalità: nei sistemi circolari è la natura del processo interattivo che porta alle modificazioni dello stato del sistema, pertanto, è possibile osservare i medesimi risultati in sistemi diversi e, viceversa, ottenere risultati differenti in sistemi di tipo simile, a seconda della natura delle dinamiche intervenute in essi.
L’ambito d’indagine dell’epistemologia sistemica è relativo, quindi, ad una conoscenza “sulle cose” (conoscenza di secondo ordine) più che “delle cose” (conoscenza di primo ordine), si riferisce infatti ad una metaconoscenza (Bateson 1984); le “strutture” che essa studia non sono statiche, ma dinamiche e non evolvono in modo lineare, ma a spirale conducendo alla meta-struttura o “struttura che connette” oggetto, appunto, della metaconoscenza.

La teoria dei sistemi, comunemente usata in diversi contesti disciplinari, nell’ambito dell’ingegneria e della #PianificazioneTerritorialeComunicativa, offre un’interessante chiave di lettura del concetto d’interazione in particolare in relazione all’elaborazione del processo di piano.

L’ottica sistemica consente, infatti, di studiare la processualità degli eventi offrendo l’opportunità di osservare la dimensione dinamica dell’interazione oltre che i suoi effetti.

L'oggetto di studio per il pianificatore diventa, dunque, un'entità più ampia del territorio fisico, caratterizzata dall’interazione in cui il processo di piano si compie attraverso una negoziazione dei confini relazionali tra le parti, componenti il sistema territoriale e urbano. Ogni interscambio all'interno del sistema di piano, possiede delle premesse, che attraverso un’evoluzione dinamica, possono trovare conferma autoconvalidandosi. La conoscenza del territorio, dunque, è definita dall’interazione tra l’osservatore e il territorio non più come mera descrizione dell'esploratore. L’elaborazione finale darà origine a una sorta di meta-mappa sociale e territoriale co-costruita in un processo negoziato tra i diversi portatori del sapere tecnico e di quello comune. In tal senso, il territorio si configura come un sistema aperto in cui la “struttura che connette” (Bateson, 1984) risiede nelle relazioni tra gli elementi costitutivi del tessuto sociale e territoriale.

L’interazione, in chiave sistemica, fornisce una interdescrizione e, attraverso lo studio delle interconnessioni, genera una visione del territorio propria di un nuovo “tipo logico” di conoscenza.

Nella pianificazione territoriale comunicativa le dinamiche interattive si realizzano, così, secondo una forma di "accomodamento reciproco" (Bateson, 1976) integrando in modo sostanziale il processo di piano e dando ad esso maggiore coerenza interna.
L’epistemologia della teoria sistemica, invece, offre dal canto suo un metodo conoscitivo di tipo qualitativo il cui oggetto di studio privilegiato, è l’interazione intesa come interrelazione aspetto che favorisce la valutazione e lo studio delle dinamiche circolari proprie dei #SistemiComplessi e dei #SistemiInterattivi costituiti non da semplici parti ma da “persone-che-comunicano-con-altre-persone” (Watzlawick et al., 1971) e la qualità della loro relazione definisce la natura del processo interattivo stesso. L’ambito d’indagine dell’epistemologia sistemica è relativo, quindi, ad una conoscenza “sulle cose” (conoscenza di secondo ordine) più che “delle cose” (conoscenza di primo ordine), si riferisce infatti ad una “metaconoscienza” (Bateson, 1984).

#SistemiInterattivi  hanno la caratteristica di essere #SistemiAperti caratterizzati da dinamiche di scambio orizzontali e verticali, e da una serie di proprietà specifiche:
  1. totalità (qualunque cambiamento in una singola parte influisce su tutte le altre parti e sul sistema intero), 
  2. retroazione e circolarità (dinamiche che uniscono le diverse parti di un sistema, poste in relazione reciproca da effetti di feedback e di condizionamento circolare, in cui non esiste alcun rapporto di causa-effetto secondo la più intuitiva logica lineare), 
  3. equifinalità (nei sistemi circolari è la natura del processo interattivo che porta alle modificazioni dello stato del sistema).
La #TeoriaDeiSistemi, comunemente usata in diversi contesti disciplinari, nell’ambito della pianificazione territoriale comunicativa offre un’interessante chiave di lettura del concetto d’interazione, in particolare in relazione all’elaborazione del processo di piano.

L’oggetto di studio per il #Pianificatore diventa un’entità più ampia del territorio fisico che si costruisce attraverso l’interazione: il processo di piano, attraverso un’esplorazione dei confini relazionali, agisce tra le parti che compongono il sistema territoriale, urbano e sociale, concentrandosi su una meta-mappa sociale e territoriale co-costruita in un processo in cui sono coinvolti portatori del sapere tecnico e del sapere comune. Così, il territorio si configura come un sistema aperto in cui la “struttura che connette” (Bateson, 1984), che può essere intesa come spazio interstiziale, come “ecologia di bordo”, risiede nelle relazioni tra gli elementi costitutivi del tessuto sociale e territoriale.

Nella pianificazione territoriale comunicativa le dinamiche interattive si realizzano secondo una forma di adattamento reciproco (Bateson, 1976) integrando in modo sostanziale il processo di piano e dando ad esso maggiore coerenza interna.


Figura 6 -  Elaborazione: Roberto Cossu (2000)

In questo quadro (Calvani, Rotta, 1999) il computer enhances meeting sembrava un ruolo fondamentale in quanto fa leva su tre punti chiave:
  • espansione nel tempo delle attività collaborative oltre il tempo delle relazioni fisiche;
  • flessibilità nell’elaborazione dei diversi apporti per cui gli interlocutori possono intervenire quando sono pronti e vogliono farlo;
  • visibilità degli apporti dei singoli e del lavoro complessivo che può essere aggiornato e modificato in ogni momento. 
In questo senso la rete, come ambiente di apprendimento, può evolversi secondo due dimensioni:
  • una closet-corpus, costituita da un insieme di informazioni prestrutturate rivolte a gruppi di utenti definiti, 
  • una open-corpus, in cui l’esperienza di apprendimento diventa esperienza di immersione, di costruzione, di dialogo e di condivisione continua;
mettendo in gioco diverse modalità di apprendimento, come ambiente collaborativo e comunicativo (learning by doing), nello stimolare posizioni riflessive di apprendimento (learning by reflection), o nel facilitare le tecniche di simulazione (case-based learning).

Su tali presupposti si basano una serie di esperienze che rivestono notevole importanza nel panorama della pianificazione comunicativa e interattiva di cui ci sembra di grande interesse, delineare la forma ed i confini operativi, particolarmente utili ai fini di questo studio.
Infatti, una parte della ricerca è stata sviluppata attraverso una metodologia di pianificazione interattiva off-line che si è riferita a questi filoni di ricerca incentrati sulla comunicazione, la cooperazione e l’interazione, quali: l’equity planning, l’insurgent planning, e la progettazione urbanistica partecipata, che sono stati analizzati a partire da esperienze teorico-pratiche condotte da alcuni interpreti di queste discipline della pianificazione territoriale.

#Pianificazione, #Interazione e #Autorganizzazione

L’esplorazione dei sistemi interattivi in quanto processi dinamici e forme di evoluzione non lineare, apre nuovi confini allo studio del territorio, come nel caso del collaborative planning, in cui i processi interattivi rendono il sistema socio-territoriale capace di autopromuovere la propria crescita in modo sempre nuovo e imprevedibile mediante meccanismi trasformativi auto-indotti o etero-indotti. 

All’interno di questa dimensione di interscambio, l’interazione si muove in modo disordinato secondo le dinamiche entropiche condizionate dalla qualità del tessuto connettivo del sistema territoriale. La qualità relazionale della “struttura che connette” il sistema, definisce la capacità autorganizzativa, più o meno complessa, della rete di relazioni strutturali o potenziali del sistema stesso. 

Tuttavia non è possibile prevedere l’andamento dello sviluppo di un sistema attraverso un livello conoscitivo di causa-effetto di tipo lineare. Infatti, per quanto i comportamenti interattivi risultino aspetti direttamente osservabili, essi possono esclusivamente fornire una rappresentazione dell’organizzazione del sistema, ma non l’immagine reale e completa della sua struttura interna; la sola osservazione non consente di cogliere la reale struttura del sistema perché di fatto essa non esiste come tale, ma si esplica solo nella relazione con l’altro, attraverso una struttura dinamica in continua trasformazione e una logica co-costruttiva secondo cui “la mappa non è il territorio” (Bateson , 1984).

Ogni sistema è dotato di una capacità autodescrittiva per mezzo della quale costruisce delle immagini di sé che definiscono il proprio “dominio cognitivo” (Maciocco, 1995b) cioè quell’insieme di relazioni note e possibili, organizzate dal sistema stesso.

Un sistema che si autorganizza si trova coinvolto in dinamiche di ordine e disordine, da cui trae la propria organizzazione interna e il proprio stile relazionale verso l’ambiente esterno alimentato, a sua volta, da scambi di energia e materia, costituenti un “ordine mediante fluttuazione” (Prigogine, 1979).

Cavallaro (1997), definisce nella seguente affermazione la relazione che intercorre tra l’interazione e la capacità autorganizzativa di un sistema: “l’organizzazione produce le interazioni tra gli elementi e, se il sistema è auto-organizzatore, si riproduce attraverso di esse: perché vi sia organizzazione bisogna quindi che vi siano delle interazioni, perché vi siano delle interazioni occorre che vi siano incontri, perché vi siano incontri occorre che vi sia disordine”.

Per chiarire il concetto di autorganizzazione dei sistemi complessi è utile riferirsi alla teoria autopoietica di matrice sistemica che offre utili riscontri teorici alla strategia operativa adoperata nello specifico campo di indagine di questo lavoro. La teoria sistemica, infatti, scandisce i temi alla base della teoria autopoietica e consente di estenderli anche ai campi disciplinari della moderna urbanistica e della pianificazione territoriale comunicativa. 

L’#Autopoiesi è un approccio teorico incentrato sullo studio dei processi di sviluppo e della capacità organizzativa dei sistemi viventi intesi come entità autonome complesse. Tali sistemi, hanno la caratteristica di avere una natura interattiva; pertanto sono dei sistemi complessi, definiti da dinamiche interattive interne fra le parti che li compongono e sono dotati di confini permeabili con l’esterno che li pongono in relazione con altri sistemi aperti.

Maturana e Varela (1992) attraverso lo studio dell’evoluzione dei sistemi viventi definirono il concetto di sistema autopoietico e ne formularono le caratteristiche fondamentali, qui di seguito riassunte:
  1. Invarianza dell’organizzazione: l’organizzazione di un sistema autopietico è caratterizzata da un insieme di relazioni interne che possiedono degli aspetti stabili e assolutamente “tipici”. Tale caratteristica fa sì che sebbene il sistema subisca delle trasformazioni, la struttura relazionale che lo definisce, e quindi la sua identità, non viene snaturata.
  2. Chiusura operazionale: si riferisce alla capacità del sistema di definire la sua organizzazione interna in modo autonomo attraverso un movimento interno organizzato con andamento circolare
  3. Autoriferimento: si riferisce alla possibilità del sistema di percepirsi come qualcosa di differenziato rispetto all’ambiente; infatti, la presenza di uno schema d’azione interno elice la funzione autopercettiva del sistema autopioetico, mentre la delimitazione di precisi confini con l’esterno ne definiscono l’unicità rispetto agli altri sistemi esterni.
  4. Apertura autoreferenziale: consente al sistema autopoietico di percepire la propria identità attraverso lo scambio di informazioni differenti con l’ambiente esterno; pertanto i confini di un sistema autopoietico devono essere permeabili e di tipo interattivo
  5. Auto-osservazione: si riferisce alla capacità del sistema di saper cogliere le differenze con l’ambiente esterno ed elaborare l’alterità attraverso meccanismi di assimilazione e poi di accomodamento al proprio schema interno.
In tal senso non è più sufficiente constatare che i sistemi autopoietici si sviluppano secondo un progressivo adattamento all’ambiente, ma piuttosto concentrarsi nello studio dei processi di coevoluzione, in cui il sistema e l’ambiente sono reciprocamente coinvolti in uno scambio continuo e in senso bidirezionale. Infatti, “un sistema vivente tramite la sua determinazione strutturale interna, seleziona tra gli stimoli ambientali quelli significativi; determina la direzione e la modalità dei cambiamenti di stato interni, in funzione della conservazione della invarianza sia della propria organizzazione, sia della corrispondenza con l’ambiente, cioè della stabilità degli scambi con quest’ultimo” (Tagliagambe, 1994).

Secondo il quadro teorico di riferimento fin ora descritto i sistemi interattivi raccolgono in sé, a tutti gli effetti, le caratteristiche dei sistemi autopoietici; pertanto è possibile estendere questa identità anche ai sistemi territoriali oggetto di studio della pianificazione, di cui la natura relazionale è stata trattata nei precedenti paragrafi. E’ possibilie, infatti, ritrovare nei sistemi territoriali degli “indizi di vitalità’ (Magnaghi, 1995) propri dei sistemi capaci di autorganizzazione, ossia dei segnali in grado di rilevare il verificarsi di processi interattivi e dinamici di co-costruzione in un dato territorio.

La ricerca dei nodi di vitalità dei territori si deve alla sempre maggiore attenzione di molti studiosi, appartenenti a diverse discipline, sensibili al divenire dei fenomeni territoriali, sia attraverso sperimentazioni di carattere puramente personale nell’ambito della propria realtà territoriale di appartenenza, sia attraverso riflessioni teoriche mediante un confronto interdisciplinare.

La prospettiva interdisciplinare della pianificazione interattiva coincide con la profonda trasformazione di tipo culturale dei singoli sistemi socio-territoriali.

Indici di vitalità di questo processo di cambiamento sono espliciti nelle trasformazioni dei diversi ambiti del territorio come quello economico, quello sociale, politico che si concretizzano in forme di autorganizzazione come quelle dell’autoproduzione, e del cooperativismo, frequenti modalità organizzative delle fasce sociali più giovani che si svincolano dal consueto sistema di mercato e dal sistema assistenziale di tipo pubblico. (Magnaghi, 1994)

“Gli esempi sono i più diversi, basti pensare alle associazioni di volontariato che interessano il settore sanitario, alle associazioni di tipo culturale, ai movimenti spontanei di quote crescenti di abitanti, sensibili ormai ai tematismi ambientali ed ecologici e coinvolti direttamente nella lotta all’inquinamento o nella salvaguardia di tutti quegli elementi rivendicabili nell’identità e nell’appartenenza a un luogo, ma più in generale al sistema terra”. (Dessì, 1998)

In quest’ottica di trasformazione e di crescita, allora, fenomeni come quelli di deterritorializzazione e di decontestualizzazione possono assumere un significato più costruttivo all’interno del processo di piano, dove il progetto ambientale si definisce in una dimensione interattiva e assume le caratteristiche di un auto-progetto promosso dal sistema Planner-territorio.

In questa emergenza di nuove forme interattive le reti telematiche e Internet stanno trasformando rapidamente e radicalmente le caratteristiche della società, quindi, i rapporti tra gli individui, tra i gruppi e tra le città, delineando sempre nuove relazioni con forti caratteristiche di dinamismo e complessità.

Questo lavoro nell’aprirsi alla dimensione on-line risponde alla necessità di acquisire adeguate informazioni su Internet e le reti telematiche, e di indagare sull’epistemologia del cyberspazio per promuovere dinamiche interattive ed autopoietiche attraverso i nuovi strumenti interattivi per la comunicazione, l’interazione e la cooperazione on-line.

#Pianificazione e #Interazione nel #Cyberspazio

Nell’ottica trasformativa che i sistemi telematici hanno imposto alla società moderna, nel 1998, Bond e Gasser, formularono una descrizione dell’Intelligenza Artificiale Distribuita (IAD) che può essere considerata quale definizione parziale del concetto di cyberspazio come composto da una pluralità di sistemi, le cui caratteristiche sono così riassumibili:
  • sono composti da parti sviluppate in modo indipendente e in continua evoluzione
  • sono concorrenti ed asincroni, basati su un controllo decentrato fondato sullo scambio dialogico e sulla trattativa
  • “esibiscono inconsistenze locali” (Tagliagambe, 1997)
Potersi riferire a sistemi autonomi di questo tipo, fa sì che problemi di grande complessità possano essere scissi in piccoli moduli affrontabili separatamente, consentendo, una volta ricomposti, una comprensione dei fenomeni nella loro interezza. A questa descrizione, parziale, del cyberspazio, segue la definizione che Tagliagambe formula partendo dal significato della parola, coniata da Gibson in un suo libro di fantascienza, in cui: “il cyberspazio è una visualizzazione spazializzata delle informazioni disponibili in sistemi globali di elaborazione di esse, lungo percorsi forniti da reti di comunicazione, che permette la compresenza e interazione tra più utenti, e rende possibile la ricezione e la trasmissione di informazioni attraverso l’insieme dei sensi umani, la simulazione di realtà reali e virtuali, la raccolta e il controllo di dati lontani attraverso la telepresenza e l’integrazione e intercomunicazione con prodotti e ambienti intelligenti nello spazio reale”. (Tagliagambe, 1997)

La realtà virtuale e il cyberspazio diventano, quindi, contesti in cui ci si immerge e ai quali si partecipa non solo cognitivamente, ma anche emotivamente. Infatti, nel "ciberspazio" l'umanità sta sperimentando forme rivoluzionarie e innovative di interazione e comunicazione di dati, informazioni, passioni e interessi. A dar vita a questo luogo virtuale, sono i computer collegati ed inteconnessi tra loro e in grado di contenere un’enorme “memoria comune”, prodotto di un continuo arricchimento ed aggiornamento che “consente l'espansione planetaria della mente e la nascita di una nuova cultura”. (Lévy, 1999)

Il passaggio dallo spazio della realtà quotidiana al cyberspazio, pone ulteriormente in evidenza il ruolo attivo delle singole persone che si confrontano continuamente all’interno di uno spazio in cui tutto viene ridefinito in parallelo con il mondo reale, ma con dimensioni e distanze differenti in cui l’oggetto classicamente inteso cede il passo alla relazione e allo spazio.

Per comprendere correttamente la natura e la funzione del cyberspazio occorre indagare le differenze tra i suoi obiettivi:
  • rappresentare la realtà;
  • interpretare e spiegare la realtà;
  • aumentare e potenziare la realtà.
I fenomeni in quanto tali “ restano muti”, (Tagliagambe, 1997) solo interrogandoli direttamente si può ritrovare la loro voce determinando e specificando il possibile contenuto della realtà. Rappresentare la realtà non vuol dire descriverla, ma esaltarla cogliendo le qualità emergenti dei fenomeni e degli oggetti.

I modelli il cui compito è di spiegare e interpretare la realtà non possono limitarsi ad una sua descrizione passiva o una sua rivisitazione, ma attraverso le tecniche devono tendere a potenziare l’ambiente di riferimento piuttosto che simularlo.

Aumentare e potenziare la realtà significa principalmente riprogettarla in un cyberspazio, costruito con sistemi interattivi multimediali, che consente di rafforzare le proprietà degli oggetti in funzione dei nostri bisogni appartenenti al mondo reale.

Secondo Lévy (1999) la nascita e l’imporsi del cyberspazio hanno sorpreso per la rapidità e potenza della loro evoluzione nella quale si scorgono elementi di nascita e crescita di un’"intelligenza collettiva" del genere umano. Egli, inoltre, ritiene che oggi il genere umano costituisca un’unica società secondo un fenomeno antropologico talmente nuovo ed innovativo da rendere inadeguate le vecchie forme culturali, politiche e concettuali e per questo motivo, coglie alcuni elementi fondamentali utili a spiegare la cybercultura come segue:
  1. tutti i testi, le immagini, i suoni diventano parti costitutive di un “unico iperdocumento planetario” al quale si può accedere da qualsiasi nodo. Questo iperdocumento è costantemente oggetto di lettura, consultazione, semplice osservazione e commento, ma ha anche la caratteristica di venire continuamente alimentato, modificato e accresciuto sfuggendo alla supervisione di editori, produttori, addetti stampa e istituzioni in genere.
  2. il cyberspazio differisce dai mezzi di comunicazione tradizionali per le caratteristiche dell’informazione che supporta: interattiva, collettiva, pluridirezionale. Inoltre chi è “immerso” nel cyberspazio, non deve essere immaginato come individuo solitario, ma come elemento attivo che attraverso lo scambio, la collaborazione e l’interazione, partecipa a diversi processi di intelligenza collettiva. Naturalmente egli può sottrarsi a questa dimensione rimanendo spettatore e rifiutando di condividere interessi, emozioni, informazioni e dati.
  3. la velocità e la potenza delle trasformazioni nel campo della comunicazione, e non solo, consentono di ipotizzare che tutto ciò che riguarda lo scambio e la trasmissione di informazioni è destinato ad attraversare il cyberspazio. Infatti, “Internet non è un medium ma un meta-medium che sta assorbendo, trasformando e rinnovando non soltanto i media già esistenti ma anche un gran numero di istituzioni tradizionali, in particolar modo il mercato e la scuola”. Ciò non significa che tutto passerà per Internet, piuttosto che il peso crescente di Internet è destinato a cambiare tutto.
La connessione dell’umanità con se stessa, di cui oggi viviamo sia gli slanci che le inevitabili conseguenze negative, non genera, necessariamente, una maggiore uguaglianza tra gli uomini, ciò non di meno, appare più utile accompagnare ed orientare questo processo irreversibile verso principi di uguaglianza, cooperazione e libertà, piuttosto che opporvisi in maniera rigida e, spesso, poco propositiva. Il sempre maggior numero di computer collegati in rete, a cui fanno capo persone ed istituzioni fortemente eterogenee, costituiscono la linfa vitale per il perfezionamento del cyberspazio. 

Levy (1999) auspica che questo fermento e questa crescita, portino ad avere un numero di esclusi sempre minore. Il cyberspazio non è, come un tempo, gerarchico e burocratico, ma sinergico e capace di potenziare la fiducia e il riconoscimento reciproco. 

La posizione di Virilio (1997), a riguardo, è opposta infatti egli ritiene che la "realtà virtuale" non sia tanto la navigazione nel cyberspazio delle reti, ma “l'amplificazione della valenza ottica delle apparenze del mondo reale” che tenta di compensare la contrazione delle distanze provocata dalla compressione temporale, tanto da essere annoverata, attraverso una drastica semplificazione, tra quelle di coloro i quali, intimoriti dall’enorme scenario che gli si spalanca dinanzi, guardano “alle radici come loro unica protezione” e cercano conferme nella tradizione e nel passato. Mentre invece, attraverso la stessa semplificazione, Lèvy può appartenere al gruppo di quelli che sentono e vivono le radici come un peso che gli impedisce di “volare alto” e ovunque. 

Tagliagambe (1997) a tal proprosito, richiama la nostra attenzione sulla necessità di superare entrambe queste posizioni estreme per tendere ad una posizione di sintesi tra la metafora delle “ali senza radici” e delle “radici senza le ali”. (Tagliagambe, 1997)

#Pianificazione e mutazione dei concetti di #Spazio e #Tempo

La posizione di sintesi richiamata nel precedente paragrafo da Tagliagambe (1997) invita a ripensare la progettualità in termini di equilibrio tra la tradizione e l’innovazione. L’azione progettuale si può esprimere solo all’interno di due categorie centrali e peculiari quali spazio e tempo; per tale motivo è fondamentale capire come esse mutano e in relazione a che cosa questo succeda. Abbiamo osservato, nel precedente paragrafo, come lo spazio fisico può essere “aumentato” attraverso la sovrapposizione dallo spazio virtuale, in cui sono comprese le reti e tutti quei sistemi della comunicazione immateriale, che contribuiscono a potenziare la dimensione fisica dello spazio. Le interrelazioni tra spazio fisico e spazio virtuale, costituiscono una nuova dimensione della spazialità che Tagliagambe definisce come “realtà aumentata”.

Questa nuova dimensione è frutto delle sinergie tra le infrastrutture fisiche (sistemi e reti per le telecomunicazione, etc.) e quelle immateriali (software, siti Web, etc.) che diventano elementi d’indagine imprescindibili nel processo di piano del territorio e della città.

Si parla di effettualità quando ci si riferisce alla realtà nel modo in cui si presenta, effettivamente, nel momento in cui se ne parla; quindi, quando si identifica in termini spaziali e temporali del qui e ora una proposizione, si introduce un discorso relativo all’effettualità che passa, obbligatoriamente, attraverso uno schema di spazio e tempo. Non è possibile, dunque, parlare di realtà o di effettualità al di fuori di un preciso riferimento spazio-temporale; lo spazio e il tempo diventano categorie imprescindibili per il passaggio dalla sfera del possibile a quella dell’effettuale.

Va osservato che, mentre lo spazio delle possibilità può prescindere da determinazioni e riferimenti spazio-temporali, lo spazio dell’effettualità, per essere, deve necessariamente basarsi su una struttura spazio-temporale.

Il piano ha la capacità di rendere effettuale, nel qui e ora, qualcosa che esisteva soltanto in potenza nello spazio delle possibilità progettuali; per portare l’azione progettuale dallo spazio delle possibilità a quello dall’effettualità è necessario lavorare all’interno della dimensione spazio-temporale in cui il processo di piano si compie.

Allora, sotto questo profilo, si inizia a capire che spazio e tempo sono elementi imprescindibili della progettualità e che ogni progetto deve riferirsi allo spazio delle possibilità per essere effettivamente tale. L’unica regola logica che non è possibile violare è rappresentata dal principio di non contraddittorietà (“posso pensare come possibile tutto ciò che non è contraddittorio”).

Per passare dallo spazio delle possibilità a quello dell’effettualità è necessario introdurre alcuni vincoli spazio-temporali che, necessariamente, restringono lo spazio delle possibilità; tanto maggiore risulta il numero di vincoli tanto più viene limitato lo spazio delle possibilità, infatti, se si introducesse un numero eccessivo di vincoli lo spazio delle possibilità andrebbe a coincidere con quello dell’effettualità. Quando si progetta o si pianifica, ci si trova di fronte alla necessità di operare questo passaggio dal possibile all’effettuale, attraverso l’introduzione di vincoli spazio-temporali.

Pianificare oggi, non significa soltanto incidere sullo spazio fisico, ma anche tener conto dell’esistenza di un altro spazio, quello virtuale appunto, in cui i luoghi sono immateriali e fisicamente non determinabili, ma fortemente incisivi sul piano della realtà e dell’effettualità. La possibilità di lavorare, cooperare e confrontarsi nello spazio immateriale di Internet consente di incontrarsi al di fuori dello spazio fisico dove, tuttavia, si compiono delle possibilità reali. E’ importante a questo punto, introdurre la differenza tra spazio e luogo, infatti, lo spazio costituisce un contesto che noi non scegliamo, ma in cui veniamo catapultati secondo il principio di “gettatezza”. Lo spazio in cui nasciamo e che non abbiamo scelto diventa, comunque, il nostro contesto di riferimento al quale ci adattiamo e che modifichiamo in funzione delle nostre esigenze. Nel tempo, questo spazio fisico, inizia ad acquistare dei significati simbolici legati a percezioni, sentimenti e vissuti personali, che mediano il rapporto tra la dimensione fisica e le persone attraverso i luoghi.

I luoghi sono frammenti del territorio e della città a cui vengono attribuiti significati condivisi che li rendono riconoscibili ed unici. Fino a poco tempo fa l’approccio progettuale ai luoghi era reso più semplice dal fatto che questi erano ben definiti e separati (luoghi di lavoro, di studio, di convivialità e di svago); oggi non è più così, infatti, l’abitazione può diventare un luogo di lavoro (telelavoro), i luoghi di convivialità possono trovarsi in aree commerciali (nuovi centri commerciali polifunzionali), ecc. Questa tendenza dei luoghi ad avere funzioni e confini sempre meno definiti spinge la progettualità nel campo della complessità e la costringe ad affrontarla attraverso tecniche e modelli che consentano di riferirsi ad unità d’analisi sempre più piccole e osservabili.

Il passaggio ulteriore all’interno della dimensione spaziale è quello dal luogo allo spazio virtuale. Solo attraverso la considerazione e l’analisi di alcuni dati si può capire in che direzione evolva questo passaggio; le transazioni che avvengono attraverso il canale immateriale sono mille volte più numerose rispetto a quelle che avvengo attraverso lo spazio fisico. Nella dimensione virtuale le informazioni, i dati e le transazioni dello spazio dell’effettualità, avvengono in maniera più veloce ed efficace rispetto a quanto avviene nello spazio fisico. Questo fatto può creare l’equivoco concettuale per cui lo spazio virtuale possa sopperire completamente allo spazio fisico. In realtà lo spazio fisico e lo spazio virtuale devono concorrere a creare una realtà aumentata in cui lo spazio fisico viene potenziato da quello virtuale.

 La realtà aumentata costituisce una forma di interrelazione tra la realtà materiale e la realtà virtuale e rappresenta l’espressione del potenziamento dello spazio fisico.

Lo spazio virtuale consente di espletare molte funzioni che prima necessitavano di uno spazio fisico e spesso permette di costruire, carte, modelli, simulazioni, ai fini del progetto, “svuotando” lo stesso spazio fisico. Diventa essenziale per il progettista il confronto e la conoscenza dello spazio virtuale per progettare in un sistema misto che si manifesta nella realtà aumentata; ogni progetto, dunque, dovrà confrontarsi con le dimensioni dello spazio fisico, dei luoghi e dello spazio virtuale.

Parliamo ora della dimensione temporale del progetto considerando l’enorme accelerazione subita costantemente dai processi di sviluppo. La nostra vita viene sconvolta da nuove scoperte a tempi brevi cosicché il ritmo di sviluppo attuale è molto più accelerato del ritmo di sviluppo delle generazioni passate. Possono essere evidenziate all’interno dell’ambiente, tre grandi sistemi temporali:
  • le geosfere caratterizzate da un tempo geologico lentissimo proprio dei processi geomorfologici;
  • la biosfera ritagliabile all’interno della geosfera e identitificabile in quella striscia sottilissima dell’atmosfera in cui si concentra la vita, il cui tempo è estremamente accelerato rispetto a quello della geosfera, ed è proprio dei processi evolutivi biologici;
  • la noosfera definita come il prodotto superiore della biosfera in cui gli esseri umani danno vita a processi tecnologici notevolmente più veloci rispetto ai tempi della biosfera.
I processi innovativi retroagiscono sulla biosfera e ne condizionano i tempi di sviluppo, infatti, se i ritmi della noosfera si evolvessero in tempi così rapidi da non consentire un adattamento da parte della biosfera avverrebbe uno scollamento tra queste due dimensioni che finirebbero per non comunicare più. L’uomo si adatta, allo stesso modo, ai meccanismi e ai tempi che la sua stessa intelligenza produce, tuttavia la società non è caratterizzata solo dall’innovazione e dall’adattamento ad essa, ma anche dal tempo della tradizione scandito da ritmi e abitudini molto più lente che costituiscono un freno ai cambiamenti troppo rapidi. Tale armonia della dimensione temporale dell’ambiente sociale è detta eterocronia; essa si riferisce alla coesistenza di differenti e opposti tempi di sviluppo di un sistema ambientale e sociale che assolvono a funzioni diverse come l’avvento dell’innovazione e il rispetto della tradizione. 

Per progettare nell’ambito dell’effettualità il pianificatore non può prescindere dalla dimensione eterocronica perché, se progettasse solo all’interno di un tempo della tradizione, il prodotto finale sarebbe obsoleto ancor prima della sua attuazione. Se, invece, il progettista si affidasse soltanto ai tempi dell’innovazione, il progetto, risulterebbe svincolato dalla realtà. È fondamentale, dunque, far coesistere queste modalità nel rispetto dei tempi della tradizione e dell’innovazione.

La pianificazione e la progettazione, per quanto detto, si configurano come attività complesse in cui il tempo e lo spazio devono essere capiti e maneggiati con cura per riuscire a sincronizzare le loro sinergie funzionali e per capire le vere attitudini dei luoghi.

Infine, come sottolinea Tagliagambe (1997): l’intelligenza non è una funzione di una localizzazione spaziale, ma è l’effetto di una sincronizzazione temporale. Quante più sono le funzioni che io riesco a far interagire all’interno di un'unica finestra temporale, tanto più la mia operazione è intelligente. L’intelligenza è, quindi, funzione della capacità di sincronizzare. 

Attraverso le reti c’è la possibilità di sincronizzare; Internet fa convergere, sincronizzandole, azioni che si trovano spazialmente separate nei luoghi più disparati dello spazio, per cui io posso cooperare e scambiare informazioni con persone di tutte le parti del mondo. Il computer sincronizza e questa sincronizzazione è una funzione del tutto analoga a quella svolta dal nostro cervello che mette insieme, sincronizzandole, funzioni che provengono da luoghi differenti dello spazio celebrale. Sincronizzare diventa sempre più importante. Il problema di cui si deve tenere conto nella pianificazione è, appunto, la necessità di sincronizzazione le attività umane in relazione al processo di piano. L’obiettivo finale è quello di progettare la città nella realtà aumentata e non più nello spazio fisico e nel territorio classicamente inteso.

Il Progetto della #Città e del #Territorio nella #RealtàAumentata

Proseguendo con Tagliagambe (2000) “Una progettazione orientata tecnologicamente è dunque necessariamente riflessiva e politica e guarda indietro alla tradizione che ci ha formato, ma guarda anche avanti verso le trasfomazioni della nostra via non ancora realizzatesi”.

Progettare all’interno della realtà allargata favorisce l’acquisizione di nuove tecniche e nuovi strumenti utili ad una maggiore consapevolezza della natura e delle potenzialità delle azioni umane che conducono a sviluppi tecnologici sempre nuovi. Il processo di piano contribuisce alla costituzione e all’apertura di possibilità inedite in cui possiamo determinare, nuovi orizzonti di progettualità che si rifletteranno profondamente sul modo di agire e di pensare dei nuovi tecnici della pianificazione.

La pianificazione si configura, sempre più, attraverso il mutamento della sua dimensione ontologica, che oggi può essere identificata come intervento congiunto sullo spazio fisico e su quello virtuale. A tal fine deve possedere e valorizzare le seguenti caratteristiche:
  • Isotropia e omogeneità: gli interventi progettati nello spazio fisico come le infrastrutture, il costruito e i vari “segni” materiali dell’intervento umano sul territorio, costituiscono una cesura tra le aree naturali, caratterizzate dai segni morfologici, e quelle create, ordinate e organizzate dall’intervento dell’uomo. Questa cesura, necessaria perché funzionale ai bisogni di insediamento della società, diversifica e frammenta il territorio attraverso la sua incidenza. L’azione progettuale tipica dello spazio virtuale, invece, oltre essere meno invadente sul piano fisico ha inoltre “la capacità di rendere isotropo e omogeneo lo spazio, rendendo sempre più marginali e deboli le distinzioni tra luogo e non luogo, tra centro e periferia, tra città e campagna e via enumerando”.
  • Interstizialità: il fatto che lo spazio fisico costituisca il supporto di una serie di infrastrutture utili alla realizzazione di diverse reti fa si che i tradizionali luoghi densi dello sviluppo del territorio siano rintracciabili negli interstizi, nelle zone di transito, di confine e di collegamento che identificano e rappresentano un territorio.
  • Frammentazione: l’approccio razional-comprensivo della pianificazione risulta, alla luce delle caratteristiche di isotropia, omogeneità e interstizialità totalmente inadeguato per le sue pretese di esaustività che spesso hanno reso i piani inattuabili. Pertanto, sempre secondo Tagliagambe (1997, 2000) rispetto alle esigenze attuative del #Piano, diventa fondamentale affrontare la progettazione dei sistemi complessi scindendoli nelle loro singole componenti che devono essere identificate in “moduli” affrontabili e risolvibili in una soluzione globale, una sorta di progetta della frammentazione nella quale "la base del progetto sarà allora il disegno delle giunzioni e delle interconnessioni tra i frammenti e le parti”.
Le caratteristiche sopraelencate dell’interstizialità e, soprattutto, quella dell’isotropia attribuiscono al territorio una complessità strutturale; in tal senso si deve interagire con il territorio, secondo le modalità di approccio proprie dei #SistemiComplessi. Tali sistemi, il cui comportamento generale, in relazione alle leggi che lo caratterizzano, è difficilmente deducibile e scrutabile, sono caratterizzati da:
  • “la presenza di un gran numero di diversi stati di equilibrio e la difficoltà a trovare la configurazione ottimale rispetto ai cambiamenti”.
  • dall’emergenza di comportamenti collettivi, cioè di caratteristiche e proprietà non riscontrabili a livelli inferiori
Né attraverso l’analisi da un punto di vista globale, né da un’analisi di tipo riduzionista, è possibile determinarne il comportamento e pertanto, come previsto da Bateson (1976), sarà necessario studiarli secondo modalità intermedie di tipo logico differente.

  • Confine: la possibilità di individuare i confini delle singole parti che costituiscono un sistema territoriale complesso diventa la condizione necessaria per la comprensione e la progettazione della frammentazione. Infatti progettare la frammentazione vuol dire progettare “giunzioni” e “interconnessioni” tra i singoli frammenti. Il progetto deve, quindi, partire, dall’individuazione dei confini relazionali tra le singole parti costitutive dell’intero sistema. Questa capacità progettuale diventa tanto più importante quanto più si rivolge alla pianificazione di un intero sistema territoriale. 
  • Intermodalità: poiché la pianificazione dei sistemi territoriali complessi deve orientarsi all’analisi delle interrelazioni, l’approccio alla complessità del sistema deve considerare tutte le soluzioni interrelate possibili per risolvere la complessità stessa.
  • Verticalità e spessore: in passato l’espansione dell’abitato avveniva sull’asse orizzontale e su quello verticale trascurando però di quest’ultimo, la direzione sotterranea. Si concepiva la verticalità solo come movimento verso l’alto a partire dal livello del suolo. Oggi si inizia a ragionare su una verticalità bidirezionale che si esprime anche verso il sottosuolo che consente di guadagnare “in densità e spessore”. La crescita dei sistemi complessi territoriali si sviluppa, sempre più, in verticale definendo nuove dimensioni dell’abitare.
  • Interattività: l’interazione tra lo spazio fisico e lo spazio virtuale consente di accedere alla dimensione della simulazione; essa riveste particolare importanza in moltissimi settori scientifico-matematici e inizia ad avere sempre maggiore rilievo nell’ambito della pianificazione territoriale. 
I modelli simulativi su computer consentono di riprodurre nella dimensione del cyberspazio fenomeni e processi complessi di varia natura. Questi modelli consentono, grazie all’utilizzo di calcolatori sempre più potenti, di simulare processi anche molto articolati che richiedono centinaia di migliaia di operazioni al secondo per essere spiegati.

“Il metodo della simulazione e lo sviluppo della modellistica matematica consentono ormai di affrontare con strumenti sempre più raffinati e rigorosi problemi di grande complessità, come ad esempio la descrizione dell’interazione fra oceani, terra ed atmosfera, al fine di predire in termini accurati variazioni climatiche dovute all’effetto serra, o il comportamento di agenti che non possono prendere decisioni indipendentemente l’uno dall’altro, e che tendono a massimizzare determinati obbiettivi con risorse limitate” (Tagliagambe, 2000).

Nella realtà aumentata lo spazio fisico viene potenziato da quello virtuale; pertanto, le tecniche e gli strumenti di progettazione per esplicitarsi hanno necessità di un supporto fisico e virtuale determinato da collegamenti e connessioni che Internet e i software consentono di attuare concretamente.

La progettualità si confronta con la dimensione del Web, così l’azione e il pensiero dei tecnici dovrebbero orientarsi, maggiormente, verso Internet e le potenzialità ad essa collegate. La dimensione della rete è pervasa di potenzialità e di punti critici sui quali approfondiremmo l’argomentazione nel prossimo capitolo, in cui, saranno riportate alcune esperienze di pianificazione territoriale interattiva che si servono di Internet e che sono state di fondamentale importanza per orientare la dimensione on-line di questa ricerca.

#Pianificazione,  #Interazione, #Partecipazione e #Tecnologia

Le reti telematiche e Internet stanno rapidamente trasformando le caratteristiche della società dell’informazione, quindi, i rapporti tra gli individui, tra i gruppi, tra le informazioni, si delineano sempre più attraverso relazioni complesse e dinamiche. I modelli che si ispirano alla rete hanno caratteristiche di trasversalità, di poco controllo e di scarsa prevedibilità, che vengono strutturate attraverso i nodi in una dinamica articolata e mutevole. Vivere nella società della rete comporta un approccio differente alla conoscenza che diventa sempre più distribuita e dislocata al di fuori della singola persona. (Calvani, Rotta, 1999)

Quando i computer vengono utilizzati per favorire nuove forme di dialogo interpersonale si parla di CMC (Computer Mediated Communication) che rappresenta una nuova branca della comunicazione attualmente al centro di studi e ricerche. Le caratteristiche che la distinguono dalla comunicazione intesa in senso tradizionale sono le seguenti:
  • E’ svincolata da condizionamenti spazio-temporali, ma vincolata alla possibilità di accedere alla tecnologia ovunque ed in qualunque momento.
  • I messaggi possono essere modificati, migliorati, sostituiti costantemente.
  • Ha caratteristiche reticolari che consentono scambi uno-uno, uno-molti, molti-molti bidirezionalmente.
  • Si possono allestire forme di cooperazione condivisione e visibilità dei lavori a tutti i partecipanti.
  • Le comunità dialogiche coinvolte, hanno la possibilità di espandersi, ridursi e modificare in tutto o in parte le loro componenti.

La CMC (Comunicazione Mediata da Computer) ha rivoluzionato le modalità classiche di comunicazione anche in relazione alla trasformazione e differenziazione degli spazi e delle relazioni temporali al loro interno, introducendo due distinzioni fondamentali (Cecchini, Vania, 1999):
  • presenza fisica (o reale) e presenza virtuale (o telepresenza)
  • tempo reale (sincronia) e sfasamento temporale delle comunicazioni (asincronia).

Comunicazione
Sincrona Asincrona
Presenza
Interazione faccia a faccia, es. scambio verbale diretto
Interazione a distanza, es. messaggio sulla scrivania
Telepresenza
Interazione diretta mediata dalle telecomunicazioni, es.
dialogo al telefono o chat-room
Interazione indiretta mediata da sistemi di telecomunicazione, es.
mandare un’e-mail

Tabella 5

Come è avvenuto per altre tecnologie, la rete diventa un habitat culturale e sociale e la comunicazione reticolare diventa centrale nel rispondere alle esigenze sociali di cooperazione, comunicazione e interazione. La tecnologia quindi, induce a ripensare la natura della comunicazione in modo reticolare costringendo ad analizzare il significato delle nuove attività comunicative. La tabella sopra riportata da modo di analizzare i limiti delle riunioni in presenza che per ovvi motivi spazio-temporali differiscono da quelli di incontro on-line:
  • Il tempo disponibile è limitato e i problemi devono essere risolti al suo interno.
  • Si parla uno alla volta in sequenza, pena il disturbo e l’inefficacia della comunicazione.
  • Ogni partecipante deve ascoltare l’oratore anche quando ritiene inutile o poco importante il suo intervento.
  • Difficilmente i partecipanti sono posti nelle medesime condizioni di prendere la parola e ciò comporta che gli interlocutori più svantaggiati possano non avere modo di intervenire.
  • L’emotività e la timidezza possono influire nel frenare la partecipazione di chi non riesce ad esprimere o a raccogliere le proprie idee nel tempo stabilito.
  • Un partecipante può soffermarsi troppo a lungo su un tema a lui caro, ma di scarso interesse per la comunicazione o per gli obiettivi della riunione.
I rapporti in presenza, quindi, risultano importanti nella fase di progettualità con piccoli gruppi, mentre con gruppi molto numerosi è possibile riunirsi in conferenze per individuare orientamenti di carattere generale.

In questo quadro, il computer enhances meeting assume un ruolo fondamentale facendo leva su tre punti di base:
  • Espansione nel tempo delle attività collaborative, fuori dal tempo previsto per la riunione.
  • Flessibilità nell’elaborazione dei diversi apporti per cui gli interlocutori possono intervenire quando sono pronti e vogliono farlo.
  • Visibilità a tutti degli apporti dei singoli e del lavoro che può essere aggiornato e modificato in ogni momento.
Affinché i progettisti siano tali anche di ambienti cooperativi, sia in rete che in presenza, occorre che si avvicinino alle discipline che studiano le dinamiche dei gruppi on-line e off-line. Il problema, quindi, è quello di realizzare una nuova ecologia della comunicazione che, attraverso l’interdisciplinarità, si esprima impegnandosi a realizzare una tipologia di incontro che riassuma le caratteristiche delle riunioni in presenza e delle interazioni on-line. (Calvani, Rotta, 1999)

Iniziano a sorgere le prime comunità virtuali in cui la comunicazione interattiva avviene intorno ad un interesse comune o la comunicazione stessa diviene scopo dell’interazione. “La cultura della rete prevede che chi è su Internet non sia più ciò che era e chi non è su Internet sia destinato a non esistere” (Calvani, Rotta, 1999); a questo riguardo Negroponte (1995) scrive: “Nell’essere digitale io sono io, non un’unità statistica. Il mio io include informazioni ed eventi che non hanno significato statistico o demografico. (...) quell’informazione che mi riguarda, determina dei servizi e delle informazioni che io vorrei ricevere riguardo una piccola e sconosciuta città o una persona non famosa (...). La demografia classica non è adatta a rappresentare l’individuo digitale”.

La rete, come ambiente di apprendimento, si sta evolvendo secondo due dimensioni:
  • Come closet-corpus, costituito da un insieme di informazioni prestrutturate rivolte a gruppi di utenti definiti.
  • Come open-corpus, in cui l’esperienza di apprendimento diventa esperienza di immersione, di costruzione, di dialogo e di condivisione continua.
Questo secondo punto consente di indagare la dimensione e il lavoro cooperativo coordinato in rete che si traduce nella ricerca di piattaforme softwer quali CSCW (Computer Supported Cooperative Work) e Groupware che possono essere considerate come costole dell’ HCI (Human Computer Interaction) che indaga le nuove prospettive teoriche e le diverse applicazioni pratiche nell’ambito delle nuove tecnologie. (Mantovani, 1995)

Risulta estremamente difficile, o forse impossibile, censire le risorse del World Wide Web, classificarle e valutarle e ogni tentativo di farlo va incontro a poca autorevolezza e a profondi equivoci culturali. Internet è infatti, un continuum destrutturato che si dilata e si riduce in ogni momento.

La rete può mettere in gioco diverse modalità di apprendimento, come ambiente collaborativo e comunicativo il learning by doing, nello stimolare posizioni riflessive di apprendimento learning by reflection, o nel facilitare le tecniche di simulazione case-based learning. (Calvani, Rotta, 1999)

All’interno del fronte delle tecnologie è utile indagare il legame tra le comunità e gli strumenti atti alla comunicazione digitale.

Nell’ambito tecnologico, le NTIC (Nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dall’inglese New Information & Comunication Technologies) consentono, probabilmente, di fare un tentativo di classificazione degli strumenti e delle tecniche comunicative e partecipative nell’ambito della pianificazione territoriale ed urbanistica. A tal proposito Cecchini e Vania (1999) propongono una classificazione tecnologica basata sulla semplice trasmissione di dati e informazioni e sul livello reale d’interazione, utile ad indagare i processi partecipativi e cooperativi che possono condurre a momenti decisionali autentici.

La classificazione degli strumenti tecnologici interattivi è riassunta nella seguente tabella:

INFORMAZIONE
(flusso comunicativo unidirezionale)
INTERAZIONE
(flusso comunicativo bi-direzionale)
RACCOLTA
DIFFUSIONE
SINCRONA
ASINCRONA
- Web
- Database
- GIS
- Touch screen
-Pc multimediali
- Broadcasting
- Web
- Interviste assistite al Computer 
-Votazioni elettroniche
- Chat
- Conferenze al
   Computer
- MUD

- Mailing list
- E-mail
- Newsgroup
- BBS













Tabella 6

Alle potenzialità della rete Internet, si accompagnano una serie di problematiche che è stato utile analizzare ai fini di questo studio; l’analisi dei punti nevralgici, determinati dalla rivoluzione telematica, inoltre, farà da sfondo alle esperienze pratiche di pianificazione territoriale interattiva on-line.

La rete internet tra servizi ai cittadini e pianificazione interattiva on-line

Cecchini (1999) analizza la realtà di Internet scandagliandone i problemi e individuando otto punti critici di riflessione:
  1. Tutti comunicano in Internet (o comunicheranno): Per quanto si possa pensare in maniera ottimistica al grande sviluppo al quale Internet andrà in contro, si può stimare che la soglia di utenze reali in alcuni anni potrà raggiungere il 50% della popolazione del primo mondo; se si considera che questa frazione della popolazione corrisponde al solo 20% della popolazione mondiale totale, si scopre che solo il 10% degli abitanti del mondo avrà la possibilità di accedere alla comunicazione interattiva all’e-commercio ed alla “democrazia totale”. Chi si occupa allora del restante 90% di persone che non potranno accedere alla rete?
  2. Internet sarà la forma futura della comunicazione: non è mai accaduto che la nascita di un nuovo mezzo di comunicazione decretasse la morte di un vecchio mezzo, soprattutto se quest’ultimo aveva raggiunto un certo livello di maturità; in realtà l’avvento di nuovi strumenti spinge alla riorganizzazione dello spazio e del tempo in cui la comunicazione avviene, e ciò comporta che tutti i vecchi mezzi di comunicazione ricalibrino la loro azione sui nuovi spazi. La crescita delle nuove tecnologie genera, spesso, l’integrazione di media differenti, che si integrano e si evolvono in maniere inedite. Alla luce di queste considerazioni è lecito pensare che si potrà continuare a leggere libri e giornali senza doverlo fare per forza su un video.
  3. Internet è democratica: Internet non è, necessariamente, democratica anche se le sue caratteristiche potenzialmente, la configurerebbero come mezzo privilegiato per lo sviluppo di una comunicazione libera e democratica; in realtà bisogna riflettere sul controllo totale e personale che gli haves (“i potenti”) esercitano sui processi, le forme e i contenuti. Tutto ciò porta a riflettere criticamente sulla democraticità presunta di Internet.
  4. Internet è il frutto del liberalismo: Internet, come abbiamo visto nel precedente capitolo, non è frutto del liberalismo, ma delle necessità militari prima, e universitarie poi, degli Stati Uniti. L’intervento pubblico ha consentito lo sviluppo di questa tecnologia sostenendone i costi, inizialmente a vantaggio della sola ricerca, ma pur essendo di grande importanza lo sviluppo hardware e di velocità di connessione, ciò che ha avvicinato molti utenti a questa dimensione sono state le interfaccia amichevoli, affidabili e utili ai fini quotidiani. L’iniziativa pubblica è stata fortemente supportata da quella privata, volontaria, gratuita e creativa che ha messo a disposizione di tutti programmi, interfacce, idee e la possibilità di confrontarsi e cooperare in rete. Il miglior esempio per rappresentare tutto ciò è sicuramente da individuarsi nel sistema operativo Linux e nelle persone che gratuitamente lo aggiornano, modificano e riorganizzano da tutto il mondo.
  5. I modelli di comportamento e di uso dei nuovi media sono imposti: un dato di fatto certo è che ciascun utente fa di testa sua all’interno della rete quale sistema anarchico, tutto ciò non necessariamente è un bene, ma deve fare riflettere i pianificatori e gli urbanisti in genere, sull’uso di questa tecnologia per addomesticare la realtà sui propri obiettivi. “Lo fanno gli studenti con la scuola, gli abitanti con i quartieri e con i siti della città (trasformando “non-luoghi” in luoghi e viceversa), i ragazzi con i giochi”. (Cecchini, 1999) Così l’approccio razionale al processo di piano risulta inadeguato per quanto euristicamente utile.
  6. I modelli di comportamento e di uso dei nuovi media sono liberi: si parte dal presupposto che i comportamenti riguardanti una moltitudine di persone sono fortemente condizionati da ideologie, mode e stili di vita. È per questo motivo, infatti, che i poteri forti hanno la possibilità di orientare le scelte sociali secondo il proprio interesse.
  7. Su Internet la gente comune “naviga” per fini impropri: l’uso della rete è “anarchico” e questo è uno dei punti di forza di questo mezzo di comunicazione che non prevede un modo corretto del suo utilizzo. L’uso improprio della rete non spaventa i detentori del potere economico che traggono comunque vantaggio da tali dinamiche.
  8. Internet costruisce un mondo “virtuale” che sostituisce quello reale: è estremamente improbabile che il virtuale possa sostituire la realtà perché, comunque, tutto deve essere localizzato e funzionale alle dinamiche di vita quotidiana. Come abbiamo visto precedentemente lo spazio virtuale può, semmai, potenziare lo spazio reale dando vita ad una realtà allargata.
È importante valutare le caratteristiche che la rete deve possedere e sviluppare per favorire una partecipazione democratica. Occorre facilitare l’accesso da posti che siano pubblici da cui connettersi e nei quali confrontarsi con chi ha competenze per introdurci in questa dimensione. Diventa fondamentale rendere i costi accessibili a tutti anche allo scopo di favorire un’interazione diretta tra i cittadini, da casa, e gli uffici delle Pubbliche Amministrazioni; il confronto deve poter avvenire anche riguardo a scelte operative e di pianificazione in uno sfondo di trasparenza e collaborazione dando a tutti la possibilità di concorrere al risultato e renderlo visibile.

I nuovi media hanno agevolato la nascita di gruppi auto-organizzati che si impegnano nei servizi e nella costruzione di strutture locali che spingono per una sempre maggiore trasparenza dell’azione amministrativa e dell’organizzazione del territorio.

Le relazioni sociali e l’associazionismo civico sono state studiate attraverso una famiglia di iniziative che utilizzano i computer e gli strumenti informatici in genere, per arrivare a favorire e migliorare la comunicazione accrescendo la rappresentatività delle comunità locali; CN è l’acronimo identificativo il cui significato è: Community Network.

Le Community Network si sviluppano in Nord America e Canada come dei BBS (Bulletin Board System) e internet locali di piccole dimensioni, per soddisfare le esigenze di ridotte quantità di persone e per la limitatezza dei mezzi tecnici impiegati.cI primi network degni di nota a livello statale furono:
  • Cleveland Free-Net (1986)
  • Big Sky Telegraph (1988)
  • Santa Monica PEN (Public Electronic Network) (1989).
I network possono essere distinti grazie alla differente tipologia di iniziative supportate:
  • Network for-profit (o commerciali, un esempio di questo tipo è il network di New York City -ECHO, East Coast Hang Out http://www.echonyc.com/)
  • Network non-profit, invece, mirano allo sviluppo di un supporto “informatico” e “informativo” utile alla comunità e possono essere promossi da privati o da istituzioni pubbliche.
Nel 1994, in Italia, si svolgono le prime sperimentazioni in questo senso, con le RC (Reti Civiche) che iniziano con l’offrire un insieme di servizi a carattere informativo, ma poco o niente interattivi. L’iniziativa viene portata avanti dalle Pubbliche Amministrazioni che intuiscono l’importanza di proporsi in rete sperimentando la possibilità di offrire dei servizi al cittadino. In questo senso i primi a utilizzare questi sistemi e a migliorarne le caratteristiche furono alcune città centro-settentrionali che rapidamente vennero seguite da altre città, ma anche da organizzazioni turistiche, commerciali e private. 

All’osservazione del fenomeno “Reti Civiche” presenti in Italia, nel febbraio 1999, segue la ricerca “Città digitali e Distretti virtuali” dove si fa riferimento a realtà territoriali che, rispetto alle modalità tradizionali, trasferiscono in modo innovativo, parte dei loro servizi agli utenti sul Web. Ci si proponeva di allestire un osservatorio permanente sull’offerta di servizi in rete offerti ai cittadini, inquadrando alcuni fattori specifici. Si è quindi, implementato uno strumento di rilevazione a cadenza periodica che monitorasse la situazione dei servizi telematici nella rete italiana, attraverso la creazione di un database di supporto da aggiornare e organizzare con le informazioni provenienti dall’indagine analitica.
Le NTIC (Nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dall’inglese New Information & Comunication Technologies) le cui potenzialità sembrano essere molto elevate in realtà, nei fatti, sono ancora inespresse e poco applicate. Ai fini di questo studio si ritiene importante esaminare alcuni casi significativi che hanno costituito anche la base di partenza per il lavoro condotto on-line durante l’esperienza sul campo nell’area urbana di Sant’Elia.
In riferimento alle diverse potenzialità delle NTIC si possono specificare due tipologie fondamentali di intervento:
  • quelle in cui gli interventi che identificandosi con obiettivi di informazione sono in qualche modo calati dall’alto, in contrasto con la natura di “partecipazione” con approccio dal basso, in cui rientrano anche quelli che si definiscono di coinvolgimento dei cittadini che però spesso sono comunque voluti dall’amministrazione, e quindi dall’alto, e perciò poco sentiti dalla comunità (Rizzi, 1997);
  • quelle che assumono un ruolo principale nelle interazioni tra i soggetti e riescono con efficacia ad ampliare le possibilità di scambio e comunicazione tra individui, gruppi ed Amministrazione.
Qui di seguito, verranno prese in considerazione tre esperienze particolarmente significative per lo specifico orientamento teorico-pratico assunto in questo lavoro. I casi descritti sono relativi alle città di Wien (1.640.000 ab.), Atlanta (425.000 ab.) e Lugo di Romagna (32.200 ab.) estremamente diversi per numero di abitanti, contesto, scala territoriale e uso di NTIC ma tutti orientati verso processi di cooperazione, interazione e partecipazione nell’ambito della pianificazione. (Rizzi, 1997)

2.1.2 Esperienze di Interazione Off-Line


Krumholz
Lane
Healy

2.1.3 Esperienze di Interazione On-Line

WIEN
LUGO DI ROMAGNA
ATLANTA

2.1.3 La #Pianificazione come terreno di esercizio della #RicercaAzione

Se dunque l'attività di #Pianificazione assume come obiettivo primario quello di ostacolare la tendenza alla de-territorializzazione, richiamando una sempre maggiore attenzione sul contesto, l'irrompere della dimensione comunicativa ed interattiva nell'azione impongono di superare i limiti e le restrizioni legate ai canoni tradizionali della ricerca, e in particolare la separazione tra “ricercatori” e "soggetti della ricerca" in quanto " ... un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica. Se l’osservatore non si rende conto del viluppo di relazioni tra un evento e la matrice in cui esso occorre, tra un organismo e il suo ambiente, o è posto di fronte a qualcosa di misterioso oppure è indotto ad attribuire al suo oggetto di studio certe proprietà che l’oggetto non può avere." (Watzlawick et al., 1971)

Pertanto, ai fini della Ricerca è stato volto uno sguardo particolare alla #RicercaAzione  che ha fornito uno sfondo teorico e metodologico convincente per la formulazione di un metodo di lavoro efficace basato su presupposti concettuali solidi in quanto essa rappresenta di fatto un progetto sociale, rispecchiato in un progetto scientifico.

Ispirata alle esperienze di Collier e alle teorie di Lewin, ma formalizzata dal Tavistock Institut of Human Relations, si tratta di una metodologia che può essere definita come un processo che coinvolge diversi attori in un progetto comune (Pourtois, 1984) per la soluzione di un problema e che favorisce l’introduzione di modifiche nella propria programmazione mano a mano che si procede nel lavoro rivolgendo l’attenzione in primo luogo ai processi.

La #RicercaAzione permette di superare alcune restrizioni legate ai canoni della ricerca tradizionale, e in particolare la separazione tra "ricercatori" (gli osservatori) e "soggetti della ricerca" (gli agenti), trovando successo, all'inizio, soprattutto in campo formativo, grazie alla sua intenzionalità fondamentale di "comporre fin dall'inizio l'esigenza del conoscere con quella dell'agire, l'avanzamento e l'organizzazione del sapere con il miglioramento delle situazioni e dei fenomeni studiati e l'efficacia degli interventi" (Pellerey, 1990) e nel campo dello "sviluppo organizzativo" esplicandosi attraverso l'interazione di diversi attori in un medesimo progetto di azione che può essere di soluzione di un problema specifico o di formulazione di un possibile cambiamento.

In ambito anglosassone si tende a farla coincidere spesso con l'approccio della Ricerca Operativa, cioè con la ricerca di soluzioni razionali di problemi dati o con procedure di decisioni "ottimali", mentre in ambito europeo prevale l'importanza della cooperazione tra attori e ricercatori come raccontano, per esempio, gli sviluppi registrati in area francofona: in questo contesto si tende a valorizzare soprattutto l'implicazione dei partecipanti alla ricerca e le potenzialità del "ricercatore collettivo" ha consentito di evidenziare l'appartenenza di ogni impresa di ricerca ad un più globale "gioco" ideologico e politico.

Tali sviluppi, sui quali pesano le impostazioni culturali generali e di fondo, hanno aperto una serie di questioni epistemologiche che sottolineano numerose differenze rispetto alla la primitiva impostazione lewiniana. Inoltre, per la sua stessa natura, la letteratura relativa alla ricerca "finalizzata all'azione" non ha dato luogo a formalizzazioni teoriche "generali" mantenendosi piuttosto a livello di narrazione dei singoli casi di studio.

Ciononostante come ha osservato Pourtois (1944) "l'idea di efficacia che accompagna ogni [#RicercaAzione] dota la sua impresa di una funzione tecnica la cui risultante è definibile soprattutto dal potere sull'ambiente che acquisiscono i suoi attori e nell'ambito dei loro progetti politici. In tal modo la funzione teorica della conoscenza perde il suo carattere di assolutezza e di neutralità e avvia delle interazioni permanenti tra l'organizzazione teorica del sapere e i limiti dell'azione" e anche se si può certamente rimarcare un allontanamento della dai canoni dell'obiettivismo scientifico non si può affermare che la legittimità conoscitiva di tale approccio sul piano euristico ne venga inficiata.

RICERCA TRADIZIONALE
RICERCA-AZIONE
Atteggiamento scientifico
Atteggiamento prasseologico
Analisi delle transizioni
Elaborazione di transizioni
Raffinamento della conoscenza
Implicazione esistenziale in senso soggettivo
Metodologia mirante al raffinamento dei dati
Ricerca dell’efficacia per operare delle scelte
Determinazione di fatti, invarianti, leggi, costanti
Elaborazione di tattiche, strategie, politiche
Procedure rigorosamente ipotetico-deduttive
Rivalutazione dell’affettivo e dell’immaginario
Distacco e neutralità del ricercatore
Implicazione ed emancipazione degli attori
Stabilizzazione del cambiamento
Formazione al cambiamento
Riferimento a problemi di conoscenza
Riferimento a problemi sociali e ambientali
Monodisciplinarità
Interdisciplinarità
Tabella 7: comparazione tra ricerca tradizionale e ricerca-azione

Inoltre, sono diversi gli autori che forniscono delle definizioni convincenti relativamente alla complessità e peculiarità dell'approccio.

Secondo Pellerey (1990) la #RicercaAzione può essere definita, nel caso di un sistema complesso, come un processo di raccolta sistematica di dati, proveniente dall’interazione tra i diversi attori, e di attività di valutazione funzionali all’evoluzione del sistema stesso mossa dall'intezionalità fondamentale di comporre fin dall’inizio l’esigenza del conoscere con quella dell’agire, l’avanzamento e l’organizzazione del sapere con il miglioramento delle situazioni e dei fenomeni studiati e l’efficacia degli interventi.

Walton e Gaffney (1991) chiariscono che sotto il profilo del metodo operativo la ricerca-azione presenta alcuni elementi comuni che permettono di determinare una percorso sostanzialmente valido per tutte le sue elaborazioni che descrivono un processo ciclico: osservazione, valutazione, intervento, osservazione:
  1. identificazione dei problemi da risolvere, dei fattori causali esistenti, delle limitazioni ambientali presenti e delle professionalità disponibili;
  2. formulazione delle ipotesi di cambiamento e dei piani di implementazione;
  3. applicazione delle ipotesi nei contesti-obiettivo del piano formulato, 
  4. valutazione dei cambiamenti intervenuti ed implementazione dei metodi applicati, approfondimento, istituzionalizzazione e diffusione capillare delle applicazioni con valutazione positiva.

Secondo Calvani e Rotta (1999) la #RicercaAzione " ... interviene in una situazione, rinunciando tuttavia a tenere sotto controllo le variabili di disturbo: cerca di mettere a fuoco il problema, di riflettere su quale possa essere il modo più ragionevole di comportarsi, attuare l’intervento, soffermarsi nuovamente a riflettere sugli effetti emergenti."

In sintesi la #RicercaAzione implica l'attivazione di un processo di conoscenza che tende a far incontrare ricercatori e soggetti della ricerca su di un “campo comune di interazioni concrete"  attraverso un processo di comunicazione simmetrico basato su un rapporto di circolarità fra la ricerca e l’azione rinunciando a tenere sotto controllo le variabili di disturbo ma anzi cercando di mettere a fuoco il problema, di riflettere su quale possa essere il modo più ragionevole di comportarsi, attuare l’intervento, soffermarsi nuovamente a riflettere sugli effetti emergenti.
Attraverso i processi di #RicercaAzione il #Pianificatore si pone consapevolmente in una posizione comunicativa e di apprendimento. La comunicazione si configura, inizialmente, come “processo di trasferimento” simmetrico di dati, grezzi e veicolabili, che, riuniti in un insieme riconoscibile avente propria identità propositiva, danno luogo all’informazione. 

La conoscenza viene generata attraverso collegamenti tra “selezionati complessi di informazioni” che un insieme di soggetti già possiede e usa costruttivamente (Calvani, Rotta, 1999) e tradotta dall’azione mirata del pianificatore in conoscenza significativa, spostandosi da una situazione di #ProblemSolving ad una di #ProblemFinding.

Tale tipo di conoscenza è influenzata anche dalla soglia dei mezzi di percezione di cui disponiamo. La soglia di percezione è determinata, in questo caso, dall’atteggiamento etico del #Pianificatore, che non può essere spettatore neutrale, ma deve potersi confrontare e mettere in discussione promuovendo il “coinvolgimento del sé” (Goffman, 1971a) che consente di sviluppare quello che Bateson definisce ethos e dunque di rendere le comunità consapevoli degli stati passati che di consentire loro di immaginare stati possibili.

In questo senso il #Pianificatore si propone come perturbatore efficace, capace di innescare cambiamenti che aumentino il grado di plasticità strutturale delle comunità locali, consentendo loro di rispondere ai continui mutamenti ambientali partendo comunque da una conoscenza del funzionamento del sistema costituito dalle comunità locali e dal loro ambiente di vita e, in particolare, se ancora esistono, i processi autopoietici con cui tale sistema conserva la propria identità. 

2.1.4 La #Pianificazione Comunicativa e Interattiva e il #ProgettoAmbientale come luogo naturale per l'esercizio del #CommunityVisioning

Prima dell'avvento del web, nel campo della pianificazione e del progetto del territorio le metodologie di comunicazione, coinvolgimento e interazione sono state per lo più di tipo off-line e al tempo della ricerca non sempre c’era un accordo sul vero significato di visione e visioning.

L’applicazione del visioning alla pianificazione territoriale nota col nome di #CommunityVisioning risale all'inizio degli anni ’80, quando negli Stati Uniti si sviluppano le prime esperienze di coinvolgimento delle comunità nei vari processi di pianificazione, mentre solo dagli anni ’90 il visioning è andato emergendo realmente quale nuovo concetto di #Pianificazione. Gli esempi iniziali più importanti provengono dalle comunità dell’Oregon che hanno permesso la sperimentazione diffusa del metodo ottenendo ottimi risultati. Grazie a questo è stato possibile elaborare una vera e propria guida curata dall’”Oregon Vision Project” dal titolo “Oregon Model: a guide to community visioning”. 

Per quanto i casi di studio siano numerosi e originali nell’implementazione della metodologia, il Rethink Group  individua otto fattori di successo (Figura 7), comuni a 51 progetti scaturiti da un processo di visioning e a circa 250 esperienze portate avanti dallo stesso gruppo nella regione dell’Alberta (Canada) durante il progetto Vision 2020.

Analizzando questi otto punti si riconoscono tutti i temi trattati finora come lo sviluppo locale, il coinvolgimento a tutti i livelli e la partecipazione attiva della comunità necessaria a costruire un consenso di lungo termine sulla visione comune. Resta da discutere un aspetto, di non secondaria importanza, che ha rappresentato da sempre un problema della pianificazione e cioè l’applicazione di tecniche e metodologie in contesti differenti. Infatti non possiamo certo paragonare la realtà sociale, culturale, economica ed istituzionale delle comunità dell’Oregon o delle regioni canadesi prese in considerazione a quella italiana nella quale non esiste una generale disponibilità, sia da parte del decisore che dei gruppi coinvolti, a sedersi attorno ad un tavolo per analizzare i problemi secondo i diversi punti di vista per individuare una soluzione accettabile; si registrano più spesso situazioni nelle quali delle soluzioni preordinate vengono sottoposte all’attenzione delle comunità che non hanno nessun potere reale di partecipazione anche perché la circolazione delle informazioni risulta pressoché assente.

È per questo che nasce l’esigenza di sperimentare in maniera originale la metodologia del visioning attraverso la dimensione reale e quella virtuale con l’applicazione di tecniche di comunicazione, circolazione delle informazioni e coinvolgimento sia off-line che on-line valutando le eventuali differenze nell’approccio dei diversi attori coinvolti.

Figura 7

Secondo Shipley e Newkirk (1999) molti teorici della pianificazione, ricercatori e professionisti continuavano ad utilizzare la metodologia considerandone contenuti e significati come se fossero evidenti e chiaramente condivisi mentre invece la loro analisi estesa a circa quindici anni di letteratura pianificatoria e testi correlati rivelava non un chiaro significato ma più di venti significati differenti e distinti” e non tutti in chiave positiva.

Non mancano infatti degli esempi negativi di applicazione del metodo che a causa della scarsa trasparenza avevano concorso piuttosto ad alimentare la sfiducia sia nella metodologia che nella partecipazione come nel 1991 con l’“Atlanta Vision 2020 Project. L'esperienza di Atlanta, svoltasi in due fasi, è sintetizzabile in quattro punti fondamentali:
  1. Comunicazione: uno degli esiti più importanti è stato quello di dare voce a chi, nei processi di interesse pubblico, in genere non ne ha. Le diverse fasi hanno favorito l’interazione e la comunicazione sui temi rilevanti, alimentando il senso di responsabilità della popolazione per il raggiungimento degli obiettivi.
  2. Azioni di intervento: le azioni di intervento sono state poche e la Commissione Regionale di Atlanta ha riportato solo undici delle quaranta iniziative del progetto in questa direzione. “Questo processo ha dato al pubblico la falsa impressione che qualcosa stia per essere fatto, ma in concreto tutto ciò che è risultato…è stato l’accordo sul fatto che bisognava fare ulteriori incontri”. (Rizzi, 1997)
  3. Piano di realizzabilità: la mancanza di linee guida strutturate per il processo di piano, per quanto fossero previste anche se duttili e aperte, ha portato i politici a mantenere le distanze dalle iniziative e ha ingenerato nei porta voce disattenzione e uno scarso interesse generale.
  4. Costi: i costi si sono rivelati eccessivi in relazione alle risorse retributive impiegate, ma anche in termini di tempo perso e di scarsi risultati; inoltre hanno pesato sul bilancio le opportunità e il tempo sottratti ad altri interventi.


A dispetto delle esperienze di totale o parziale insuccesso come quella sopra accennata, nel tempo il #Visioning ha trovato e continua a trovare applicazione non solo nella pianificazione territoriale ma anche in molti altri campi come quello dell’istruzione, della definizione di mission aziendali e in tutte quelle situazioni nelle quali, in generale, la comunicazione, la trasparenza del processo e la circolazione ed elaborazione delle informazioni giocano un ruolo fondamentale per il raggiungimento del successo. Superata positivamente tale fase la metodologia prevede l'attivazione di una seconda fase di #StrategicPlanning.

#Visioning#StrategicPlanning operano sinergicamente: il primo processo permette di “vedere esattamente dove si vuole andare” e “perché ci vogliamo andare” stabilendo quei core values (convinzioni essenziali a forte contenuto invariante) che condizioneranno tutto il processo anche nel momento realizzativo; nella fase seguente, strategie precise possono essere implementate per portarci il più vicino possibile a realizzare la visione del futuro.


Figura 8



Le fasi salienti del metodo, che sono quattro, racchiudono tutte le considerazioni fatte finora sulla comunicazione ed il coinvolgimento:

A
Costruzione del profilo della comunità
B
Definizione delle tendenze
C
Definizione della visione
D
Piano d’azione (Strategic Planning)

Tabella 8

All'epoca della ricerca, si era potuto verificare che dal 1993, anno di pubblicazione della guida prima menzionata, numerosi altri stati e città americani (ma anche canadesi) sono stati soggetti di sperimentazione del metodo che si è rivelato efficace nella maggior parte dei casi nel senso che ha permesso di mettere insieme #saperi e #visioni diverse per esperienza, cultura e linguaggio.

Per l'applicazione della metodologia la scala territoriale non è vincolante, ma a cambiare del livello di pianificazione cambia la forma di rappresentazione della visione stessa: a livello di area vasta, per esempio, gli obiettivi di solito sono di tipo generale e la visione tende ad essere fornita sotto forma di un documento testuale contenente propositi e linee guida che dovranno essere rispettati da qualsiasi intervento o progetto ricadente in quell’area; mentre a livello urbano, dove ci si concentra su progetti più circoscritti, la visione viene rappresentata più spesso attraverso una mappa del futuro desiderato.

Uno degli elementi di maggiore interesse è rappresentato dalla evidente convergenza tra i fondamenti teorici e pratici del #Visioning e quelli del #ProgettoAmbientale riassumibili nella forte dimensione comunicativa, nell’approccio non risolutivo (per una certa parte), nella tensione rivolta alla creazione di una vision/sfondo condiviso come premessa fondamentale a qualsiasi azione futura che sia coerente con le aspettative della comunità attraverso la definizione di goals/scopi e core values/metaregole. Ma pur se al dimensione ambientale è quasi sempre elemento presente e fondante dei processi di visioning intrapresi fino ad oggi, essa non sembra rappresentare una regola etica di base differenziandosi in questo dal Progetto Ambientale.

In ogni caso si ritiene che l’applicazione contestualizzate del #Visioning può e dovrebbe entrare a far parte delle tecniche e metodologie adottate all’interno di progetti orientati in senso ambientale perché consente di affinare le tecniche di comunicazione, coinvolgimento e interazione; allo stesso tempo esiste lo spazio d’intervento per il miglioramento della stessa.



2.2 Scelta dell'ambito urbano per la sperimentazione e dei #CaseStudies

2.2.1 Criteri di selezione dell'ambito di sperimentazione

L’area di studio per la conduzione della parte sperimentale della Ricerca è stata selezionata considerando due aspetti fondamentali:

  • le dinamiche della #MatriceStorica dell'insediamento, ossia il radicamento e la storia di una società locale che, pur essendo costituita da microcosmi separati, ha la capacità di riunirsi dando vita ad una figura socio-territoriale compatta;
  • le dinamiche della #MatriceAmbientale dell'insediamento ossia le caratteristiche ambientali e territoriali viste in funzione delle dinamiche di cui al punto precedente. 

Figura 9  - Ortofoto del Quartiere S.Elia nel 1990
Fonte: Compucart S.r.l.

L’area, in particolare mostra le seguenti caratteristiche:
  1. elevata qualità ambientale del sito che, seppure allo stato potenziale, rivela, tra i luoghi di degrado e disconoscimento, la possibilità di una rigenerazione;
  2. connotazione infrastrutturale del territorio, caratterizzata da barriere e divisioni che circoscrivono il contesto, rendendolo facilmente individuabile e riconoscibile;
  3. presenza di un patrimonio naturale e storico rilevante nell’area urbana di Cagliari;
  4. presenza di una società radicata e quindi un significativo attaccamento ad alcuni luoghi;
  5. presenza di associazioni, gruppi e singoli individui attivi sul territorio e promotori di iniziative;
  6. marginalità fisica e sociale dal resto della città.

2.2.2 Dinamiche della #MatriceStorica dell'insediamento

Nel 1878 venne scoperta una cavità naturale, la Grotta di Sant’Elia appunto, in cui furono rinvenuti i primi e più antichi indizi della vita preistorica di Cagliari, appartenenti al Neolitico antico (VI-V millennio a.C.). Ulteriori resti risalenti però al Neolitico medio (IV millennio a.C.) furono trovati nelle Grotta del Bagno Penale situato a poca distanza dalla Grotta di Sant’Elia e in un’altra grotta, ormai scomparsa in seguito a fenomeni franosi, ma di notevole importanza per lo studio della cultura prenuragica dell’intera isola, quella di San Bartolomeo. Sia nel periodo del Bronzo antico che del Bronzo medio e recente, la Grotta di Sant’Elia e di San Bartolomeo e del Bagno Penale, costituivano dei punti di riferimento per gli studi storico-antropologici risalenti al 1500-500 a. C.

A nord-est del Capo di Sant’Elia, lungo il pianoro superiore, vi sono evidenti segni di epoca fenicia da porsi in relazione ad un passaggio artificiale scolpito nella roccia, anticamente utilizzato come via sacra che conduceva all’antico sacello di Venere. Accanto a questo tempio sono stati ritrovati resti di una cisterna punica le cui acque venivano utilizzate per le abluzioni; in seguito questa stessa cisterna, divenne serbatoio idrico dei monaci che in diversi periodi si stabilirono sul monte.

Al periodo delle persecuzioni cristiane viene fatto risalire il martirio di Sant’Elia che si era ritirato come altri monaci sul Monte Falcone, così era chiamato il promontorio, che avrebbe preso poi il nome dell’eremita giustiziato sul monte stesso per evitare pericolosi tumulti in città; i fedeli, recuperato il corpo, gli diedero in segreto onorata sepoltura, nello stesso monte dove qualche tempo dopo, venute a cessare le persecuzioni, poterono edificare un piccolo santuario in suo onore. Le reliquie del Santo furono rinvenute nel 1621 sotto i resti della chiesetta di Sant’Elia.

La chiesa di Sant’Elia fu assegnata ai Vittoriani, monaci con vasti interessi economici e commerciali, che davano lavoro e lavoravano essi stessi nelle peschiere nelle saline e nei carcatori (luoghi di imbarco per il sale).

I pisani a partire dal 1258 mal sopportavano l’egemonia dei Vittorini, e nel 1298 circa, si impadronirono dei loro beni e delle loro proprietà nei pressi del castello di Cagliari. Con l’estromissione dei Vittorini si insediarono in Sardegna i Carmelitani che diffusero il culto di Elia come grande profeta biblico, travisando la reale antica origine del martirio. Dai portolani si deduce, infatti, che il promontorio era stato intitolato ad Elia molto prima dell’arrivo dei monaci Carmeliatani.

La chiesetta di sant’Elia venne ridotta a un rudere dai bombardamenti della flotta spagnola, e le rovine costituirono una dimora precaria per i pellegrini agresti, fu proprio da questi resti che emersero le reliquie di Sant’Elia tradizionalmente venerate e motivo di pellegrinaggi.

Il promontorio di Sant’Elia, per la sua conformazione geografica e morfologica ha sempre rappresentato un baluardo naturale di difesa sul Golfo di Cagliari.

Nei pressi della chiesetta di Sant’Elia, in cima al promontorio, è situata la vecchia torre che oltre a fungere da faro costituiva un punto strategico di difesa; essa può essere identificata con la Torre dei Segnali costruita dai pisani ancor prima della Torre di San Pancrazio e della Torre dell’Elefante di Cagliari.

Il Capo Sant’Elia acquisì presto importanti funzioni di difesa, in cui sorse nel XVIII secolo, il fortino di Sant’Ignazio, mai completato. In realtà esso costituiva una trincea protetta da grossi cannoni utilizzati nel contrasto con i francesi nel 1793.

Nel 1804 questa fortificazione divenne il ricovero per i malati affetti da malattie contagiose e nell’ultimo conflitto mondiale vi venne posizionata una stazione di ascolto per i soldati ciechi, utile a prevedere i bombardamenti aerei. Il vero forte, di fatto, era quello di Cala Mosca in prossimità della Torre di San Giovanni, ricca di bocche da fuoco e cannoni, che fu usata per contrapporsi ai francesi nel 1793 e venne chiamata, in seguito, Torre dei Segnali. Quest’ultima e il fortino di Sant’Ignazio costituirono negli anni a seguire un importante punto di accoglienza dei sovrani.

I francesi tentarono uno sbarco a Sant’Elia nel febbraio del 1793 che fallì per la scarsa organizzazione e per la fortunosa difesa sarda. Il colle mantenne la sua fisionomia di baluardo difensivo anche nel secondo conflitto mondiale in cui vennero installati dei punti di difesa per le incursioni aree e vennero scavati cunicoli, gallerie e buncher, anche se ebbero poca efficacia perché l’artiglieria non era dotata di sistemi di puntamento validi, e la gran parte venne distrutta.

Nel maggio del 1950 a sette anni dall’ultima incursione che distrusse gran parte della città, Cagliari venne insignita della medaglia d’oro al valor militare; ciò ha decretato l’importanza che i militari rivestono tutt’ora in città e in queste zone, infatti, sia la vecchia area del bagno penale che gran parte del colle Sant’Elia, sia ad est che a ovest, sono occupate da insediamenti militari. L’elevato numero di unità ha determinato inoltre, la costruzione di svariate caserme e strutture logistiche che insistono pesantemente sul territorio ma che, a detta di qualcuno, hanno contribuito a preservarlo.

2.2.3 Dinamiche della #MatriceAmbientale dell'insediamento

Il promontorio di Sant’Elia, è situato al centro del Golfo di Cagliari a sud-est della Sardegna. Capo Sant’Elia, funge da spartiacque tra il “vecchio” Golfo di Cagliari, posizionato ad ovest del capo davanti alla via Roma, e il “vecchio” Golfo di Quarto ad est del Capo di fronte al Poetto; come indicati in una importante carta del 1850. (Principe, 1981)
Prima della comparsa dell’uomo, il capo era un’isola unitasi, attraverso un cordone litoraneo, alla terra ferma in seguito all’andamento delle correnti marine caratteristiche dei due golfi; queste descrivono un moto rotatorio in senso orario, ad ovest del capo, e in senso antiorario ad est, accoppiandosi come delle ruote ad attrito in corrispondenza della linea immaginaria delineata dal Capo stesso. La Valle di Is Mesas (in corrispondenza di Cala Mosca), formatasi in seguito a dinamiche di sprofondamento, costituisce un setto separatorio tra il Monte Sant’Elia e il Colle di Sant’Ignazio consentendo di mettere in relazione il Capo Sant’Elia con il Poetto ed il Golfo di Quartu, e il Colle di Sant’Ignazio con il Golfo di Cagliari e in particolare con le dinamiche sommerse di quest’ultimo.

Le dinamiche costiere sono ben distinguibili e anche il regime delle correnti è testimone di queste differenze. La conoscenza di questo regime, inoltre, consente di capire come si diffondono gli inquinanti, le sabbie e tutte le sostanze che per varie ragioni vengono riversate in mare. (Atzeni, Balzano, Lai)

Il Capo Sant’Elia è costituito da due catene di roccia calcarea, lungo la direttrice nod-sud separate dalla Valle di Is Mesas sulla quale si affacciano con pendii inizialmente dolci, ma poi irti ed impervi ricchi di carsismi che danno vita ad innumerevoli anse e grotte; le più conosciute sono: la Grotta del Capo Sant’Elia, la Grotta di Cala Fighera, le due Grotte dei Colombi, la grotta del Prezzemolo, la Grutta de Is Cocciulas, la Grotta di San Bartolomeo e la Grotta di San Giovenale.
Sul mare le scogliere precipitano quasi ovunque a picco, ma quella orientale risulta più suggestiva e impervia, elevandosi fino a 136 metri sul livello del mare.
A livello litologico, il Capo Sant’Elia è riconducibile alla sequenza miocenica, tipica del sistema di colli di Cagliari, alla cui base sono identificabili le arenarie di Pirri, su cui poggia la Pietra Cantone, costituita di calcare marnoso, ed infine i calcari biodetritici e coralligeni composti per l’80%, circa, da carbonato di calcio. Mentre il vecchio Borgo di Sant’Elia poggia, in parte, sui calcari marnosi organogeni e biodetritici e sull’arenaria di Pirri presenti sul Colle di Sant’Ignazio e ancora su depositi marini litoranei dell’ultima trasgressione Versilana, le nuove costruzioni del quartiere sono, invece, situate sui sedimenti Versiliani della componente elementare dell’Istmo di San Bartolomeo, in cui oltre ai sedimenti marini litoranei vi sono materiali di discarica, detriti di cava e di colmata ad alta permeabilità.

Le rocce calcaree mioceniche del quaternario sono coperte da un sottile manto di terra rossa, particolarmente impermeabile che contribuisce, complici i forti venti di maestrale e di scirocco prevalenti nella zona e la forte insolazione, al determinarsi di una flora mediterranea resistente tipica dei climi aridi; asparagi, ginestre, timo, sono particolarmente presenti insieme al finocchio marino, le urginee, gli asfodeli e le agavi. E’ possibile a seconda dell’insolazione e dell’esposizione ai venti che la vegetazione vari; infatti, a ridosso delle spiagge si concentrano maggiormente le flore alofite, mentre sui dirupi e versanti di calcare si concentra una flora robusta formata da grossi cespugli di alimo e di artrocmeno. Più all’interno, sul colle, è presente la gariga che copre vaste aree, mentre nella zona orientata a nord, fortemente antropizzata, questa vegetazione si accompagna a cisti e lentischi, particolarmente presenti sul colle di Sant’Ignazio. Alcune zone, come per esempio la parte di Cala Mosca vicino allo stabulario, presentano elementi di inquinamento floristico.

A livello faunistico si possono osservare svariate specie, dalle ciclostoma, lumaca dal guscio colorato, ai conigli selvatici e qualche falco pellegrino.

L’intero Capo si apre sul mare, attraverso insenature e scogli di rara bellezza, come Cala Fighera, la spiaggiola di sant’Elia e Cala Mosca, che proseguono in mare aprendo varchi sabbiosi ricoperti da Posidonia oceanica; questa costituisce un importante indicatore per valutare la qualità dell’ambiente marino; proprio in questo periodo si stanno svolgendo degli studi nell’intero Golfo per mappare i punti in cui è presente e l’estensione delle praterie.

Le specie marine presenti sono molteplici, anche se costantemente minacciate da una massiva presenza umana. Durante un’immersione subacquea è facile osservare ricci, pesci re, stelle di mare e vari molluschi. In realtà, in anni passati, qui si poteva trovare il dattero di mare (lithophaga), la cui pesca indiscriminata ha portato oltre alla quasi totale estinzione di questi molluschi, anche, al danneggiamento delle rocce loro usuale habitat.

Un’altra specie animale, particolarmente pregiata, ma ormai rara, la Pinna nobilis, è stata colpita dalle frequenti incursioni dei subacquei. Un altro grave problema che investe quest’area marina è costituito dagli scarichi inquinanti che fino a pochissimo tempo fa venivano immessi nelle acque senza un trattamento di depurazione adeguato. Oggi, fortunatamente, e gli ultimi rilievi della Goletta Verde lo confermano, la situazione volge verso un significativo miglioramento.

Per comprendere le dinamiche di trasformazione del territorio in esame è stato necessario condurre una indagine a partire dalle carte storiche, quelle più recenti e sulle restituzioni che la moderna fotogrammetria ci mette a disposizione.

Tramite l’uso della tecnica dell’overlay mapping è stato possibile ottenere una carta di sintesi (Figg. 10, 11) che rappresenta una buona base di conoscenza per chi volesse comprendere a fondo la strutturazione del territorio.

Le carte prese in esame sono state rispettivamente: un particolare da una rappresentazione in scala 1:50000 costruito dai topografi militari nel 1850 e che doveva servire come base per la costruzione della cartografia ufficiale; una rilevazione cartografica del 1858; una tavoletta dell’IGMI del 1885 e le corrispondenti relative agli anni 1950 e 1990; una foto aerea che riporta la situazione al 1991. Le carte fino al 1950 sono state tutte tratte dalla pubblicazione Principe I. (1981), “Le città nella storia d’Italia – CAGLIARI”, Editori Laterza, Bari.
Figura 10 - Evoluzione territoriale dal 1850 al 1991 dell'Area di Studio.
Fonte: elaborazione di Roberto Cossu

Dalla sovrapposizione di tali carte, rielaborate per far risaltare i tratti salienti del territorio, è stato possibile ottenere la sintesi riportata nella figura seguente:
Rappresentazione dell'evoluzione del territorio oggetto di studio tramite la tecnica dell'overlay mapping
Figura 11 - Sintesi della evoluzione territoriale dell'Area di Studio.
Fonte: elaborazione di Roberto Cossu, 2000

2.2.4 #DinamicheSociali e correlazione tra #MatriceStorica e #MatriceAmbientale dell'insediamento

La ricostruzione delle vicissitudini storiche del quartiere è stata effettuata attraverso:
  • l’analisi di tutto il materiale bibliografico a disposizione, 
  • una rassegna stampa cartacea che copre un arco di tempo dal 1971 al 1992 ed è stata curata dal giornalista GianFranco Demurtas, che l’ha messa gentilmente a disposizione di questa ricerca, completata da tutti gli articoli relativi fino all'anno 2000 da me reperiti attraverso una una ricerca on-line sul sito web dell’Unione Sarda; 
  • simulazioni grafiche e fotografiche;
  • l’analisi e la correlazione qualitativa delle testimonianze raccolte durante la ricerca sul campo e le interviste ai testimoni privilegiati.
Dalle ricerche condotte è emerso che il passato contemporaneo, ma anche il presente del quartiere, sono contrassegnati da povertà ed emarginazione che si esprimono attraverso una profonda cesura fisica e sociale rispetto al resto della città. Questa frattura, entrata a pieno nella mentalità degli abitanti del quartiere e della città stessa, ha contribuito ad acuire il senso di abbandono e di isolamento, al diffondersi di fenomeni di degrado ambientale e sociale, ad incrementare l’esercizio di attività illegali.

La storia recente di questo luogo nasce con il Lazzaretto in cui, fino alla seconda metà dell’ottocento, venivano mandati gli appestati per essere poi chiuso perché considerato inadeguato.

Il Lazzaretto venne poi riaperto durante la prima guerra mondiale per ospitare il malati di tifo; in seguito nel periodo post-bellico (anni ‘40) fu occupato dagli sfollati che si divisero tra Is Mirrionis, San Bartolomeo, lo stabilimento D’Aquila, i casotti di Giorgino e le vecchie stalle dell’ippodromo. (Selis, 1975).

La situazione venne ulteriormente aggravata dal fenomeno sempre più intenso dell’inurbamento dovuto alle correnti migratorie provenienti dall’interno: l’arrivo di tante persone alla ricerca di un’occupazione più remunerativa all’interno del tessuto urbano, creò tensioni e speculazioni che fecero lievitare i prezzi degli stabili dando vita ad un fenomeno di gentrification (simile a quelli già in voga in altre Città dell'Europa a partire dalla metà del secondo dopoguerra) burocraticamente chiamato “valorizzazione delle aree urbane” e che consisteva, appunto, nel liberare da una “certa tipologia di abitanti” le aree del centro abbattendo le vecchie case e dando vita a programmi di urbanizzazione intensiva.

In quegli anni divenne sempre più incalzante il problema degli alloggi per le persone che erano state sfrattate ai quali si aggiunsero coloro i quali avevano subito gravi danneggiamenti bellici e gli immigrati. (Selis, 1975)

Il fatto che gli abitanti del Lazzaretto risiedessero in un area in cui nel seicento venivano mandate persone ammalate, contribuì a far nascere nella pubblica opinione un’immagine negativa su un sito che richiamava un’idea di esclusione da sommarsi alla pericolosità dell’area di San Bartolomeo in cui sorgeva il bagno penale che ospitava 1500 detenuti.

Il primo vero insediamento nacque per per fronteggiare la crisi abitativa degli anni ’50, durante la quale l’amministrazione pubblica ipotizzò la costruzione di un lotto di cinquanta casette entro il vasto spiazzo in prossimità del Lazzaretto. L’area venne denominata “recinto del sobborgo Sant’Elia”, così tra il 1951 e il 1956 furono costruiti 512 appartamenti con una spesa totale di 465 milioni, erogati dal Comune e dalla Regione e in parte ottenuti attraverso un mutuo acceso con la Cassa Depositi e Prestiti. (Selis, 1975)

Il borgo sorse quindi a tre quattro chilometri da Cagliari, decretando quel distacco che presto fu confermato dal fatto che le 500 famiglie destinatarie delle abitazioni facevano parte del “sottomondo cittadino, e, in taluni casi, costituivano gruppi che avevano contribuito ad alimentare la malavita e la prostituzione nella città o le avevano implicitamente favorite”. (Musio da Selis, 1975) Musio forse, dimenticò di osservare la drammaticità del problema dell’alloggio, ma capì in pieno che mettere insieme queste persone in una zona già di per sé di margine, avrebbe portato esclusione e problemi che si sarebbero ripercossi sull’intera città.

Le Amministrazioni ebbero scarsa consapevolezza delle conseguenze possibili di questa politica sociale e urbana. Formularono teorie secondo le quali la “prognosi di irrecuperabilità etico-civile” (Selis, 1975) faceva degli abitanti persone da discriminare e allontanare. Gli interessi ispiratori che avevano spinto alla costruzione del borgo non solo non mutarono, ma determinarono una politica di abbandono e sfruttamento del quartiere.

Nel 1968 venne elaborato un piano particolareggiato che prevedeva la valorizzazione residenziale ed edilizia del colle di Sant’Elia che avrebbe comportato il trasferimento in massa e la dispersione in altre zone di tutti gli abitanti del quartiere. Il piano prevedeva la demolizione di tutti i vecchi fabbricati per dar vita a nuove costruzioni e ad un quartiere completamente nuovo e risanato, per sfruttare le bellezze naturali di questo tratto di costa.

I dirigenti politici, la stampa, la borghesia cittadina, come scrive Selis (1975), mostravano scarso riguardo verso gli abitanti del borgo pensando di poter spostare le persone per godere loro del sole e del panorama del luogo.

Questo piano fu fortemente osteggiato da operai studenti, gruppi politi e spontanei che si mobilitarono con sfilate, assemblee ed occupazioni, che culminarono con la firma di una petizione da parte di 400 capifamiglia.

Don Vasco Paradisi, parroco per tanti anni della comunità di Sant’Elia, scrisse: “è incontestabile che il primo comitato di quartiere della città sia stato quello di Sant’Elia e che la coscienza della drammaticità del problema abitativo di Cagliari esplose con la contestazione e la lotta generosa e non violenta di tutti gli abitanti di Sant’Elia”. (Paradisi, 1985)

Negli anni ’70 il problema abitativo cercò uno sbocco con la costruzione del primo insediamento Iacp di Sant'Elia, nei pressi dell’omonimo stadio.

Don Guido Palmas diceva che i tre grandi palazzoni prefabbricati Del Favero fossero stati battezzati dalla gente col nome di “Centro Tumori”, in relazione alle loro dimensioni e alla particolare struttura architettonica.

La tipologia abitativa era particolare e presentava enormi porzioni comuni costituite dai ballatoi sui quali si affacciano tutti i nuclei familiari di ciascun piano.

Vi furono alloggiate 260 famiglie provenienti dal vecchio Lazzaretto e da varie parti della città. Questo nuovo intervento vedeva una ulteriore spaccatura all’interno di un quartiere già isolato, infatti, rispetto al Borgo Vecchio i nuovi “Palazzoni” distavano poco più di un chilometro e lo spazio tra le due zone risultava privo di strade di collegamento.
Dunque dal 1968, anno di elaborazione del Piano di Zona che prevedeva un insediamento di 25.000 persone e lo spostamento degli abitanti delle case fatiscenti in altri luoghi periferici e che prevedeva la demolizione di tutti i vecchi fabbricati per dar vita a nuove costruzioni e ad un quartiere completamente nuovo e risanato che doveva essere abitato dagli alti ceti, sia ha il punto di inizio di un percorso complesso durante il quale la visione di alcuni gruppi di interesse non coincideva con le esigenze di coloro che più che una visione del futuro avevano ben chiare le loro necessità primarie.

Con la nascita del Comitato di Quartiere inizia un processo di lotta e di esperienze che portano a trasformare un semplice bisogno materiale, quella della casa, in una serie di concetti e idee che dovevano servire come base per qualunque piano futuro. Il clima di costruzione della visione era arroventato dalla lotta per la casa, da scontri politici e ideologici e dalla mancanza di coordinamento vero tra le istituzioni competenti.

Figura 12 - Simulazione fotografica della situazione relativa alla presenza del canale e del relativo isolamento del quartiere dal resto della città
Fonte: Roberto Cossu su base fortografica reperita sul web

Nel 1973 pur essendo stato raggiunto il consenso sul piano proposto, per il meccanismo con cui lo stesso è stato raggiunto non si potevano avere garanzie sull’effettiva riuscita del progetto stesso: non vi era collaborazione e non era riconosciuto lo stesso rango a tutti gli interlocutori per cui non potevano prevalere scelte condivise ma conquiste dell’una o dell’altra parte scaturite da uno scontro più che da un incontro.

Figura 13 - Simulazione grafica del


Attraverso un’attenta lettura del dispositivo spaziale nella figura di cui sopra, approvato in tutte le sue forme sia dagli abitanti che dal Consiglio Comunale dell’epoca, è possibile risalire ad alcuni contenuti della visione “negoziata”:
  • il quartiere doveva allargarsi alla città crescendo fino ad ospitare 9000 abitanti compresi gli originari 2400; la composizione della popolazione doveva essere eterogenea in modo da favorire processi di coesione sociale;
  • i servizi e le strutture da realizzare, di interesse per tutta la città, dovevano funzionare da attrattore per forze esterne integratrici a quelle esistenti;
  • il costruito doveva rispettare criteri di vivibilità e salubrità da tenere in massima considerazione nella scelta ed implementazione delle tipologie edilizie (L’intervento consisteva in 14 volumi a pianta rettangolare, di altezza variabile da tre a nove piani, disposti su una maglia ortogonale a formare tre piazze semi-aperte. I corpi di fabbrica dovevano essere collegati dai vani scala e ascensore, da cui si accede a ballatoi che disimpegnano tre livelli ciascuno, su cui si distribuivano gli alloggi);
  • l’ambiente doveva essere parte centrale e qualificante dell’intervento: il mare è una risorsa da vivere e le attività tradizionali della pesca devono essere tenute in considerazione nella progettazione di questa fruizione; il quartiere doveva risultare non solo aperto alla città ma al mondo attraverso il mare ed il canale che attraversava il quartiere veniva preservato;
  • il verde doveva avere ampio risalto ed essere esclusivamente privo di barriere o recinzioni per un’ampia fruibilità dello stesso;
  • le attrezzature sportive dovevano essere affiancate da quelle a scopo più prettamente culturale e da scuole moderne;
  • il colle di Sant’Ignazio veniva percepito come essenza fondante del territorio assumendo il rango di dominante ambientale
  • la continuità con il resto della città doveva essere assicurata tramite strade a scorrimento veloce e il lungomare doveva diventare luogo di incontro e scambio per tutta la città
Dunque una visione articolata e fin troppo ambiziosa in contrapposizione a quella di partenza degli abitanti semplice e coerente con le loro condizioni economiche e culturali e che non avevano alcuna intenzione di andare via dal proprio quartiere:

case civili e confortevoli
servizi sociali
integrazione col resto della città

Figura 14 - Alcuni degli articoli della Rassegna Stampa

La storia del Piano Particolareggiato è stata tortuosa e densa di contrapposizioni sia sociali che tecnico-burocratiche come ne caso emblematico del veto posto dalla Soprintendente ai Beni Ambientali e Gallerie sulla tipologia dei palazzi a torre che si ergevano per un’altezza di nove piani sia nella configurazione a “stella” che a “lama” perché ritenuti lesivi nei confronti del paesaggio.

Questo veto di fatto ha spianato la strada a nuove soluzioni progettuali in voga all'epoca basate sulle utopie architettoniche riconducibili alla scuola dei decostruttivisti russi degli anni ’20 proponendo un modello di socialità lontano anni luce dalla cultura nella quale l’intervento architettonico è stato calato.

L’elemento aggravante è che tale tipologia non rispettava più i principi ispiratori che volevano salubrità e luce nel quartiere; non sono mai state individuate le aree per le cooperative perché tutte quelle disponibili sono state utilizzate per interventi di edilizia economica popolare disattendendo un altro principio ispiratore secondo il quale si dovevano creare i presupposti per un quartiere socialmente eterogeneo; il porticciolo per i pescatori è rimasto sempre un miraggio; non sono mai stai costruiti i servizi essenziali né è stato possibile far partire imprese commerciali riducendo il quartiere ad un grande dormitorio.

Dal punto di vista pratico la visione contenuta nel Piano Particolareggiato è stata disattesa per quasi la sua totalità e tale disallineamento sembra potersi addebitare ad alcuni difetti di tipo strategico e procedurale che affliggono il Piano Particolareggiato approvato nel 1973 come:
  • la mancanza del coinvolgimento dei privati nella costruzione reale del futuro (se non fosse per i terreni destinati a cooperative di dipendenti pubblici);
  • il modello gestionale degli impianti sportivi e tutto il verde che prevedeva una esclusiva gestione pubblica prefigurando oneri eccessivi sia dal punto di vista della spesa immediata per la realizzazione dell’intero piano che per la gestione futura di tutte la strutture.
Alla fine degli anni sessanta, sulla spinta dei fasti sportivi della squadra di calcio cittadina, il Borgo Vecchio viene apparentemente connesso con il resto della città attraverso la localizzazione dello stadio per poi essere ancora una volta tagliato da un asse viario a scorrimento veloce che collega parti opposte della città compatta.

Figura 15 - Simulazione fotografica della situazione relativa alla presenza del canale e del relativo isolamento del quartiere dal resto della città
Elaborazione: Roberto Cossu (2000)

Tale frattura ha fatto di Sant’Elia un ghetto abbandonato a se stesso, ma ciò che più pesa è che questa idea è entrata a pieno nella mentalità degli abitanti sia del quartiere sia dell'intera città e dietro la spinta del problema abitativo che attanagliava la città. Si fece largo la costruzione del primo insediamento IACP di Sant'Elia, consistente in tre grandi palazzoni con tipologia abitativa particolare che presentava enormi porzioni comuni costituite dai ballatoi sui quali si affacciano tutti i nuclei familiari di ciascun piano.

Questo nuovo intervento produsse una ulteriore spaccatura all’interno di un quartiere già isolato tanto che rispetto al Borgo Vecchio i nuovi “Palazzoni” distavano più di un chilometro e lo spazio tra le due zone risultava privo di strade di collegamento a formare due isole urbane.

Figura 16 - Foto originale della situazione relativa alla presenza dello Stadio, gli edifici residenziali IACP e l'interramento del canale con la permanenza del relativo isolamento tra Borgo Vecchio e nuovi insediamenti
Fonte: Ricerca su internet

Durante gli anni '80 si tentò di saldare le due zone con l’inserimento di nuove costruzioni prefabbricate e con un doppio anello, tutt’ora in costruzione da assegnare tramite lo IACP ad eccezione di due schiere costruite da cooperative che ospitano anche le esigue attività commerciali private.

La costruzione delle volumetrie residenziali non è mai stata affiancata dall’inserimento di servizi, basti pensare che la scuola media è tutt’ora ospitata nei locali della parrocchia. Questo approccio politico al territorio ha fatto crescere nelle persone un senso di abbandono e di isolamento fisico e sociale che ha spianato la strada all’illegalità.

Il Comune di Cagliari tentò di dare una risposta al disagio, ristrutturando le case del Borgo Vecchio e successivamente proponendo la costruzione di un parco acquatico, di strutture sportive, parcheggi ed impianti che dovevano essere finanziati dai privati. Niente di tutto ciò ha avuto seguito.

Nel 1996 venne bandito un concorso di idee, vinto dall'architetto Andrea de Eccher, incentrato sul recupero delle aree centrali del quartiere; il progetto prevedeva il recupero, in variante al Piano di Zona, di alcuni tracciati e l’organizzazione distribuita dei servizi in un ottica globale di riqualificazione dell’area.

In una prima fase è stata ristrutturata la costruzione dell’ex Lazzaretto in cui è prevista l’ubicazione di un centro polifunzionale finanziato con i fondi destinati alle opere per il Giubileo.

Per l'evidente degrado fisico dei fabbricati dello IACP degli anni ‘70 è stato predisposto un articolato piano di manutenzione, in corso all'epoca della ricerca, che prevede il coinvolgimento degli abitanti 
in un ottica di #PianificazionePartecipata e #Comunicativa.

Durante gli anni ottanta vi sono tentativi di saldare le due aree con l’inserimento di un doppio anello di nuove costruzioni prefabbricate, tuttora in costruzione, che ospita le limitate attività commerciali.

L’Amministrazione comunale risponde al disagio ristrutturando le case del Borgo Vecchio e proponendo la costruzione di un parco acquatico, di impianti sportivi, rimasti sulla carta; infine nel 1996 bandisce un concorso di idee per il recupero delle aree centrali attraverso la ristrutturazione dell’ex Lazzaretto, la sistemazione del verde pubblico e del teatrino all’aperto. Viene inoltre attivato un Laboratorio di Quartiere mirato alla riqualificazione degli edifici iacp e al coinvolgimento attivo della comunità locale.

Per le motivazioni di cui sopra, il quartiere di Sant’Elia era stato individuato come un ottimo banco di prova per lo sviluppo di un processo interattivo di pianificazione territoriale comunicativa on-line e off-line orientata in senso ambientale e la contestuale applicazione del #CommunityVisioning, per esplicitare la rappresentazione collettiva di organizzazione dello spazio, mediante l’interazione, la cooperazione e il confronto.

2.2.5 Alcuni #Casestudies sul #CommunityVisioning

La diversità di approcci e di contesti ha richiesto la ricerca ed analisi di numerosi casi di studio che rispettassero i seguenti due requisiti: la analogia dal punto di vista del contesto ambientale e la significatività del processo e dei risultati raggiunti.

Rispetto al primo punto sono state selezionate delle aree urbane di margine caratterizzate da linee di acqua e/o canali, mentre rispetto al secondo punto sono state selezionate le esperienze che contemplavano l'utilizzo del web come canale di comunicazione e partecipazione del processo.

Trai casi di studio più importanti, per ampiezza e precisione della descrizione del processo, furono individuati in esperienze al di fuori dei confini nazionali e in contesti nei quali l'utilizzo della rete internet e del web era consolidato nei quali era stato fatto uso della rete internet allargando i confini del territorio fisico con lo scopo di amplificare, quando possibile, la partecipazione e il coinvolgimento di tutti quelli che sarebbero esclusi a causa delle limitazioni delle tecniche di comunicazione e coinvolgimento off-line.

Nel caso del recupero del vecchio canale del Little River di Windsor, città canadese dello Stato dell'Ontario di circa 200.000 abitanti, posta sulla riva canadese del fiume Detroit e, di fatto, facente parte della conurbazione della omonima città statunitense che, all'epoca della ricerca contava una popolazione di circa 951.000 abitanti (popolazione in flessione da parecchio tempo e attualmente attestata intorno ai 672.000 abitanti).

Figura 17





Figura 18 - Ortofoto dell'area del Little River a Windsor nel 1998,  Ontario
Fonte: 

Nel primo caso la definizione della visione non è centrale in quanto vi era pieno consenso sull’obiettivo di recupero del tratto di fiume degradato, ma serve per comprendere come il successo del processo sia stato favorito da un ottimo processo comunicativo come viene sintetizzato nella tabella seguente:

Prima del processo di pianificazione comunicativa
Le ingenti somme di danaro pubblico necessarie per il recupero e lo sviluppo del fiume non erano disponibili.
Dopo l’avvio del processo
Il lavoro del pianificatore coadiuvato da altri professionisti in un’ottica di interdisciplinarità ha giocato un ruolo fondamentale nel costruire lo spirito comunitario organizzando i cittadini e coinvolgendoli nella ricerca della soluzione.
Descrizione delle opere eseguite
Il Little River Enhancement Group (Lil’Reg) nacque con lo scopo di recuperare ed educare la popolazione al rispetto del Little River. Come socio fondatore di questo gruppo un pianificatore, insieme al Dipartimento dei Parchi di Windsor, assiste il Lil’Reg affinché l’obiettivo venga raggiunto e allo stesso tempo ciò diventi interessante e divertente per i partecipanti. 
La campagna di pulizia del fiume  porta alla rimozione dal fondo del fiume di oltre 340 mc di rifiuti di ogni genere inclusi circa 350 pneumatici. Dopo questa azione il letto del fiume è cresciuto ripopolandosi autonomamente:
- oltre 100 famiglie hanno donato alberi per il rimboschimento dell’area circostante
- i bambini delle scuole hanno costruito tre chilometri di sentieri in legno
- sono stati piantati oltre 12000 alberi e delle aiuole fiorite; 
- è stato installato un mulino a vento, dei ponti donati da aziende private e sono stati costruiti dei nidi in legno.
Dopo numerosi progetti di successo sul suolo pubblico, la Lil’Reg ha esteso il campo d’azione coinvolgendo terre private.
Impatto globale
Meno di cinque anni dopo, Little River era un luogo riabilitato e tenuto a cuore dagli abitanti che lo frequentano attivamente e la comunità locale ha iniziate a prevedere un percorso verde esteso a tutti gli affluenti e i canali del Little River. 
Il piano regolatore della città di Windsor è stato oggetto di variante per supportare un sistema interconnesso di percorsi verdi esteso a tutta la città.
Sommando le donazioni private provenienti sia dai cittadini che da gruppi non direttamente coinvolti si è ottenuta una cifra di $500.000 superiore a quella stimata per l’intervento pubblico. 
Una brochure è stata pubblicata per informare altri gruppi interessati ad aeree naturali come poter intervenire in casi analoghi.
Tabella 9

Gli esiti di questa esperienza possono essere sintetizzati come segue:
  • il punto di partenza è una visione ampiamente condivisa dalla comunità: il fiume deve diventare un luogo vissuto e piacevole sia per fini estetici che per motivi generali di difesa del territorio;
  • l’accordo e il coinvolgimento della amministrazione locale crea sinergie basate non su un documento di valore giuridico ma da “una prospettiva condivisa, «contrattata» tra amministratori, cittadini e altre forse in campo. Pertanto, qualsiasi intervento in armonia con questa, (viene) facilitata nella sua realizzazione” . Viceversa, l’avversione di comitati di quartiere scontenti avrebbe potuto minarne le basi o comunque renderne difficile l’attuazione;
  • la coesione e il consenso certo sui fini ha permesso di superare in modo brillante il problema della scarsità dei mezzi e dei tempi di raggiungimento dei goals prefissati. Le analisi della disponibilità finanziaria si basavano inizialmente solo sul contributo statale mentre la comunità riesce a rendere disponibile sotto varie forme – come il lavoro diretto, l’impegno e la disponibilità di danaro – una cifra superiore anche alle possibilità dello stato stesso: la progettualità degli abitanti ha prevalso sulla apparente mancanza di mezzi ed energie necessarie a materializzare la visione.
Nel caso del Processo di revisione del Master Plan della città di Upper Arlinghton, cittadina di circa 35.000 abitanti, posta sulla riva est dello Scioto river, immersa nella più ampia area metropolitana di Columbus, Capitale dello Stato dell'Ohio, Stati Uniti, che all'epoca aveva una popolazione totale di circa 711.000 abitanti (popolazione attualmente in crescita e attestata intorno agli 890.000 abitanti).

Figura 19



Figura 20 - Ortofoto di Upper Arlinghton lato fiume nel 1995
Fonte: 
L'intero processo era basato sul principio della partecipazione attraverso il processo comunicativo a più livelli ed esteso alla dimensione della rete; era di fatto una esperienza in progress della quale si poteva seguire l'evoluzione attraverso il sito web dedicato (http://www.ua-ohio.net/cvp/) le cui pagine dedicate sono molto chiare e danno spiegazioni e risposte brevi ma precise alle seguenti domande:
- Che cos’è un piano regolatore?
- Perché la città ha bisogno di rinnovarlo?
- Qual è lo stato di attuazione del vecchio piano?
- Cos’è un piano concettuale e quali sono i suoi contenuti?
- Che cos’è la planimetria delle linee guida?
- Chi potrebbe essere coinvolto nel processo di piano?
- Come è organizzato il processo?



Figura 21

2.3 La conduzione pratica della ricerca

Le fasi attuative della ricerca sono state sviluppate in collaborazione con Luca Caschili, e possono essere così riassunte:
  • Studio delle preesistenze storiche, del territorio, e delle morfologie sociali;
  • Individuazione, selezione ed estrazione del campione casuale di riferimento;
  • Progettazione e realizzazione del sito Web e dei materiali in esso contenuti; (web.tiscalinet.it/tecla)
  • Selezione dei testimoni privilegiati, rappresentativi della comunità, e loro coinvolgimento in un’indagine conoscitiva mediante interviste semi-strutturate;
  • Sopralluoghi e produzione di materiali scritti, grafici e fotografici utili a supportare la ricerca; (web.tiscalinet.it/tecla)
  • Organizzazione e gestione di riunioni e incontri diretti con la popolazione off-line;
  • Elaborazione e somministrazione di una scala metrica per la valutazione della percezione fisica e sociale del quartiere da parte degli abitanti;
  • Organizzazione e gestione di dinamiche interattive e progettuali on-line;
  • Produzione di una carta di sintesi; (web.tiscalinet.it/tecla)
Lo studio è stato incentrato sull’analisi dei metodi interattivi di comunicazione e cooperazione nella pianificazione territoriale partecipata, ed, in particolare, sulle dinamiche relazionali che si possono sviluppare nel processo di piano on-line e off-line.

Per la particolare struttura del lavoro, in questa sede sarà presentata la parte alla dimensione on-line e verrà effettuato il confronto tra i risultati provenienti dalla ricerca svolta rispetto alle due dimensioni.
La metodologia interattiva on-line riguarda la fase sperimentale del lavoro condotta attraverso l’utilizzo della rete Internet. Per coinvolgere i diversi utenti Internet nella ricerca, sono state utilizzate tecniche di interazione mediata, come la creazione di un sito interattivo e l’utilizzo di tecniche di visioning, attraverso l’uso di diversi strumenti di indagine quali: chat-room, forum di discussione, posta elettronica (e-mail), form (Modulo) con scala metrica.
Il sito Web è stato interamente da noi progettato e costruito per renderlo funzionale a questo studio, articolando il progetto di costruzione e di elaborazione su tre campi di riflessione:

  1. riflessioni sulle tecniche e sulle modalità di editing delle informazioni on-line;
  2. riflessioni sulla struttura ipertestuale dei vari ambienti informativi on-line e sull’organizzazione del lavoro di editing;
  3. riflessioni sullo stile e l’efficacia comunicativa ed interattiva delle pagine Web.
Le pagine Web sono state costruite con un programma di editing in HTML utilizzando, a supporto, diversi programmi di scrittura, grafica ed elaborazione dati. I passi fondamentali seguiti per la progettazione e costruzione del sito sono stati i seguenti (Calvani, Rotta, 1999):
  • definizione del progetto;
  • identificazione di un modello grafico/comunicativo (Template);
  • definizione dell’impaginazione (Layout);
  • inserimento dei contenuti (testi, immagini, ecc..);
  • affinamento, controllo e inserimento di elementi particolari (effetti e grafica);
  • distribuzione delle pagine dal client al server Web.
Le riflessioni sulla struttura ipertestuale degli ambienti informativi on-line ha consentito di affrontare diverse problematiche concettuali; è per questo motivo che si è resa indispensabile la costruzione di una mappa del sito che diventa un comodo indice utile agli utenti per navigare meglio. Inoltre sono stati presi in considerazione gli aspetti ergonomici e comunicativi nella costruzione delle informazioni, puntando ad un’organizzazione ecologica facilmente collocabile nel contesto dell’ambiente di ricerca in cui si opera.

L’efficacia comunicativa e la fruibilità della risorsa Internet è stata frutto di un compromesso tra le caratteristiche grafiche e il posizionamento dell’oggetto multimediale nel contesto d’uso in relazione alle implicazioni sociali di utilizzo. Tali condizioni di particolare fruibilità e di possibilità di interazione on-line si sono concretizzate nell’uso di strumenti di indagine interattivi utili al coinvolgimento di un vasto numero di utenza in un processo comunicativo. La comunicazione attraverso Internet si divide in asincrona e sincrona; parliamo di comunicazione asincrona quando non impone agli attori di essere collegati nello stesso momento lasciando a ciascuno la possibilità di stabilire i propri tempi e modi dell’interazione sia nell’invio di messaggi che nella loro lettura. Gli esempi più tipici di comunicazione asincrona on-line sono:

  • le mailing-list;
  • i forum e le bacheche elettroniche;
  • la posta elettronica;
  • i form e i moduli.
Parliamo, invece, di comunicazione sincrona quando viene imposto ai diversi interlocutori di essere collegati contemporaneamente; esempi eloquenti ne sono:
  • il chatting;
  • la videoconferenza.
Questo lavoro si è servito sia di tecniche di comunicazione sincrone che asincrone e di specifici strumenti interattivi finalizzati a supportare entrambe le modalità. Tra gli strumenti che consentono la comunicazione sincrona on-line nell’ambito di questo lavoro, e quindi all’interno del sito Internet, è stato scelto quello del chatting. 

Tra gli ambienti per la comunicazione sincrona il chatting è certamente il più conosciuto; chattare significa chiacchierare ed è uno dei modi più semplici per prendere confidenza con la dimensione comunicativa della rete, infatti, i ragazzi tendenzialmente preferiscono questa pratica a quella della posta elettronica. Caratteristica di questo strumento è quella di consentire a più utenti di interagire contemporaneamente nell’ambito di una discussione e, a seconda del client che si usa, questo tipo di interazione può essere mediata dalla sola scrittura o calata in un ambito visivo tridimensionale; nel nostro caso non è stato possibile utilizzare un sistema di chat gratuito con questa caratteristica. Ogni interlocutore si presenta con il suo nome o spesso con una copertura (nickname) e, nel chatting tridimensionale scegliendo un personaggio. 

La chat-room è stata scelta per le sue caratteristiche di immediatezza e per consentire agli utenti di dialogare in tempo reale sulle problematiche del quartiere. Naturalmente per poter chattare con un numero così ristretto di utenti si richiede un precedente contatto telefonico per consentire a tutti di partecipare alla discussione in tempo reale. La differenza più evidente tra il chatting e la video conferenza consiste nel fatto che mentre per chattare è sufficiente installare un software client gratuito, come in questo caso, per lavorare in video conferenza ci si deve dotare di un sofisticato dispositivo hardware molto costoso, e questo ha determinato la scelta di non utilizzare tale strumento.
Tra gli strumenti di interazione on-line asincrona sono stati utilizzati un #Forum on line, la #PostaElettronica e un #Form in cui si trova il protocollo contenente la scheda identificativa e la scala metrica utilizzate.

#Forum on line sono spesso chiamati “bacheche elettroniche” (eletronic boards), si tratta di gruppi di discussione in cui l’interazione si svolge in modo asincrono senza quindi la necessità che gli interlocutori siano contemporaneamente presenti. Il vantaggio principale è rappresentato dal fatto che il forum garantisce una visualizzazione molto accurata dell’andamento della discussione in corso e consente di riferirsi ai diversi utenti dei quali è possibile richiamare alcune informazioni. Il forum da noi utilizzato ha come ambito specifico la discussione su Sant’Elia e sulle ipotesi di pianificazione; lo scopo è quello di consentire un confronto tra gli abitanti del quartiere, il resto della città, i portatori del sapere tecnico e tutte le persone collegate in Internet che vogliano esprimersi sull’argomento. Le discussioni fin ora attivate risultano proficue e interessanti e fanno sperare che questo trend possa continuare ed evolversi.


La #PostaElettronica come evidenziato dai dati statistici è una delle ragioni fondamentali che spinge i neofiti ad entrare in rete. è stata qui utilizzata per una serie di aspetti che la caratterizzano tra i mezzi di comunicazione asincroni:

  • veloce: i messaggi arrivano subito a destinazione;
  • sicura: i messaggi si smarriscono molto raramente;
  • economica e pratica: al costo di una sola telefonata urbana si possono inviare decine di messaggi il cui costo complessivo sarebbe proibitivo con l’utilizzo della posta ordinaria;
  • comoda: il messaggio si può inviare alla stampante per leggerlo come se fosse un documento cartaceo a tutti gli effetti;
  • riutilizzabile: il formato digitale e la possibilità di inviare file e documenti multimediali, insieme ai messaggi, garantisce il rapido riuso dei testi e dei materiali.
Le caratteristiche strutturali del forum e della posta elettronica li rendono degli strumenti atti ad attivare processi interattivi di tipo “strategico” (Goffman, 1971) in cui si stabiliscono rapporti di reciprocità simili a quelli presenti nelle “strategie di gioco”. Questo aspetto li rende degli strumenti interattivi capaci di attivare processi decisionali di tipo razionale e di coinvolgere gli interlocutori in un impegno dichiarato nella realizzazione di un’azione progettuale concreta rispetto al quartiere di Sant’Elia.

Al fine di ottenere informazioni utili e dati trattabili sui partecipanti al processo interattivo on-line è stato predisposto un form (modulo) che ha consentito e consente di ricevere dati personali degli utenti e le scale metriche, da loro compilate, in “forma aumentata”; infatti, on–line è possibile scrivere, a fianco al punteggio assegnato ai vari aggettivi, le motivazioni che lo hanno determinato integrando ulteriormente i dati utili alla ricerca.
Gli strumenti e le tecniche di #Visioning hanno lo scopo di analizzare le “visioni” che scaturiscono da un processo comunicativo e collaborativo, sia on-line sia off-line, valutando il potenziale e le sinergie tra i due approcci per giungere ad una visione finale determinata dalla comunità. 

2.3.1  Le #ImmersioniNelContesto

Murales fatto dai bambini della Scuola di Sant'Elia - Foto: Roberto Cossu
Figura 22 - Murales fatto dai bambini della Scuola di Sant'Elia - Foto: Roberto Cossu

L'esplorazione del territorio comprendente il quartiere è iniziata con una prima serie di foto scattate da punti particolari: il nuovo molo di levante ed il colle di Sant'Ignazio new! . Non avevamo idee precise se non quella di osservare senza essere osservati, con la sensibilità di chi ancora non conosce ma vuole cogliere i tratti salienti del territorio attraverso i suoi segni più evidenti e macroscopici.

Le maggiori informazioni forniteci dalle interviste ai testimoni privilegiati ci hanno permesso in una seconda e terza immersione nel territorio di individuare elementi e luoghi di dettaglio. La nostra percezione del territorio si è arricchita via via delle esperienze degli abitanti del quartiere raggiungendo un livello che ci ha consentito di riconoscere in maniera più chiara gli indizi di vitalità di un territorio-ambiente pieno di potenzialità.

Qui di seguito avete la possibilità di osservare le foto da noi scattate semplicemente cliccando su ognuna delle miniature ma se non avete mai visto il quartiere potete ingrandire la mappa sulla quale sono rappresentati i punti dai quali abbiamo eseguito gli scatti: in questo modo potrete referenziare le immagini ai loro contesti spaziali.

2.3.2 La conduzione dell’esperienza interattiva #Off-line

L’interazione off-line è stata sviluppata attraverso:
  1. interviste semi-strutturate a testimoni privilegiati (il parroco, il preside della scuola media, l’Associazione Cattolica, il Circolo Anziani, il Circolo Pescatori, ecc.);
  2. somministrazione di una scala metrica ai singoli e nelle scuole;
  3. riunioni in presenza con brainstorm e brainstorm progettuale.
I testimoni qualificati sono stati inizialmente contattati telefonicamente al fine di ottenere la loro disponibilità a sottoporsi ad un’intervista semi-strutturata.

Nel corso dell’intervista è stato richiesto di tracciare la visione del territorio scegliendo il tipo di rappresentazione cartografica più congeniale o familiare:
  1. una tavola che rappresenta l’area vasta di Cagliari, in scala 1:5000, contenente informazioni sulla città e l’ambiente naturale circostante, di non facile lettura;
  2. una tavola (stralcio della carta IGMI 1:25000 di Cagliari), digitalizzata e colorata;
  3. una tavola ricavata con il mosaico di cinque foto aeree del 1997;
  4. una mappa stradale in scala 1:9000 della Città di Cagliari riportante la toponomastica e riferita alla sola area del quartiere.
Le carte scelte più frequentemente sono state quelle più leggibili e familiari: la foto aerea e la carta stradale; è importante rilevare come tutti abbiano fatto riferimento alle altre due carte per evidenziare la dimensione ambientale e le relazioni del quartiere con il resto della città.
L’intervista è incentrata intorno a sei campi d’indagine:
  1. il territorio;
  2. il radicamento storico della comunità;
  3. le relazioni sociali;
  4. i campi problematici;
  5. la “visione” del futuro possibile;
  6. la lista di aggettivi utili a descrivere il quartiere sia dal punto di vista fisico che sociale (aperto, largo, grande, luminoso, verde, pulito, silenzioso, degradato, accessibile).
Tutte le informazioni ottenute dall’intervista, dall’uso della lista di aggettivi e, infine, dalle tavole su cui rappresentare l’immagine del quartiere stesso, sono state importanti per l’individuazione dei luoghi significativi del territorio e della socialità, e hanno consentito di centrare l’attenzione sugli aspetti rilevanti, legati sia a campi problematici che a campi di potenzialità della dimensione socio-territoriale. Le informazioni ricavate dagli incontri con i testimoni privilegiati sono servite per impostare le tecniche utili a strutturare le riunioni in presenza con gli abitanti del quartiere e gli strumenti d’interazione diretta, per l’analisi della percezione socio-territoriale e per interpretare l’informazione raccolta attraverso tecniche descrittive come l’analisi delle frequenze e l’analisi fattoriale delle corrispondenze.

Gli incontri di gruppo sono stati strutturati in due differenti sessioni.
Il primo incontro è stato condotto attraverso tre canali comunicativi differenti secondo un’impostazione complessiva di brainstorming:
  1. un computer collegato ad un video proiettore per illustrare il lavoro e focalizzare l’attenzione su alcuni punti;
  2. wall charts per scrivere i punti salienti derivanti dal confronto sulla lista di aggettivi, presentata anche ai testimoni privilegiati, e dai risultati delle interviste;
  3. una carta dell’area vasta, in scala 1:5000, su cui disegnare le idee progettuali emerse dall’interazione.
Questa fase ha consentito la messa a fuoco di temi e idee progettuali particolarmente significative per il gruppo, rispetto alle quali è stato avviato un nuovo ciclo di brainstorm progettuale, riportato questa volta sulla carta.

Tutti i materiali sono stati tradotti, in formato digitale e sono stati integralmente riportati all’interno del sito Internet www.tiscalinet.it/tecla.

Il secondo incontro è stato orientato sulla revisione dei materiali prodotti durante il primo incontro, per verificare la coerenza tra le differenti idee emerse durante il primo brainstorm progettuale ed eventualmente ad apportarvi delle modifiche.

Un’altra operazione è stata quella di quantificare la percezione che gli abitanti avevano già espresso ragionando sugli aggettivi proposti per descrivere il quartiere e associando ad ognuno di essi una scala metrica con valori da 0 a 10.


Figura 2 – L’analisi fattoriale dei dati raccolti off-line.
Figura 23 – L’analisi fattoriale dei dati raccolti off-line.


Legenda
Codice
Significato
0-14
15-39
40-65
Età

0-14 anni
15-39 anni
40-65 anni
M
F
Sesso
maschi
femmine
l_med
dip
laur
Titolo di studio
media
diploma
laurea
occ
dis
stud
pens
Condizione lavorativa
occupati
disoccupati
studenti
pensionati
A_af
A_as
Alto_aperto fisicamente
Alto_aperto socialmente
B_af
B_as
Basso_aperto fisicamente
Basso_aperto socialmente
M_af
M_as
Medio_aperto fisicamente
Medio_aperto socialmente
A_lf
A_ls
Alto_largo fisicamente
Alto_largo socialmente
B_lf
B_ls
Basso_largo fisicamente
Basso_largo socialmente
M_lf
M_ls
Medio_largo fisicamente
Medio_largo socialmente
A_gf
A_gs
Alto_grande fisicamente
Alto_grande socialmente
B_gf
B_gs
Basso_grande fisicamente
Basso_grande socialmente
M_gf
M_gs
Medio_grande fisicamente
Medio_grande socialmente
A_luf
A_lus
Alto_luminoso fisicamente
Alto_luminoso socialmente
B_luf
B_lus
Basso_luminoso fisicamente
Basso_luminoso socialmente
M_luf
M_lus
Medio_luminoso fisicamente
Medio_luminoso socialmente
A_vf
A_vs
Alto_verde fisicamente
Alto_verde socialmente
B_vf
B_vs
Basso_verde fisicamente
Basso_verde socialmente
M_vf
M_vs
Medio_verde fisicamente
Medio_verde socialmente
A_pf
A_ps
Alto_pulito fisicamente
Alto_pulito socialmente
B_pf
B_ps
Basso_pulito fisicamente
Basso_pulito socialmente
M_pf
M_ps
Medio_pulito fisicamente
Medio_pulito socialmente
A_sf
A_ss
Alto_silenzioso fisicamente
Alto_silenzioso socialmente
B_sf
B_ss
Basso_silenzioso fisicamente
Basso_silenzioso socialmente
M_sf
M_ss
Medio_silenzioso fisicamente
Medio_silenzioso socialmente
A_df
A_ds
Alto_degradato fisicamente
Alto_degradato socialmente
B_df
B_ds
Basso_degradato fisicamente
Basso_degradato socialmente
M_df
M_ds
Medio_degradato fisicamente
Medio_degradato socialmente
A_accf
A_accs
Alto_accessibile fisicamente
Alto_accessibile socialmente
B_accf
B_accs
Basso_accessibile fisicamente
Basso_accessibile socialmente
M_accf
M_accs
Medio_accessibile fisicamente
Medio_accessibile socialmente

Tabella 10 – Legenda dell’analisi fattoriale riportata nella figura 2.

La scala metrica (Tabella 2), preceduta da una scheda identificativa anonima per rilevare l’età, il sesso, il titolo di studio e la condizione professionale dei partecipanti, è stata proposta non solo nel corso del secondo incontro in presenza ma anche in occasione degli incontri con alcuni gruppi organizzati del quartiere.


Aspetto fisico
aperto
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
largo
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
grande
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
luminoso
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
verde
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
pulito
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
silenzioso
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
degradato
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto fisico
accessibile
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Aspetto sociale
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10

Tabella 11 – scala metrica.

I risultati ottenuti sono stati elaborati attraverso un’analisi fattoriale delle corrispondenze le cui variabili attive si riferiscono a tutti gli aggettivi, considerati nella loro duplice valenza, mentre le variabili supplementari si riferiscono all’età, al sesso, al titolo di studio e alla condizione professionale.

Dall’esame dei piani fattoriali riportati in Figura 2 è possibile osservare tre differenti visioni:
  1. una visione negativa da assegnare a persone di età compresa tra i 15 e i 39 anni, in prevalenza di sesso femminile, che hanno conseguito un diploma o una laurea e hanno un’occupazione. La possibilità di maturare esperienze in altri contesti, per motivi di lavoro e studio, sembra quindi aver influenzato la percezione del proprio ambiente;
  2. una visione positiva da attribuire a persone di età compresa tra i 40 e i 65 anni, in prevalenza di sesso maschile, in possesso di una licenza elementare o media, pensionati e disoccupati. Questa fascia di abitanti sembra accettare le condizioni generali del quartiere per il maggiore attaccamento ai luoghi e il senso di radicamento nel quartiere;
  3. una visione “indifferente” che interessa studenti di età compresa tra 0 e 14 anni, prevalentemente maschi, che non hanno un’opinione precisa sulla percezione fisica e sociale del quartiere stesso: una mancata valutazione che può forse imputarsi alla giovane età e all’isolamento del quartiere, che limita le possibilità di confronto e di capacità critica tra i più giovani.

2.3.3 La conduzione dell’esperienza interattiva on-line

L’approccio interattivo on-line riguarda la fase del lavoro condotta attraverso l’utilizzo della rete Internet.
È stato predisposto un sito interattivo contenente strumenti asincroni e sincroni: una chat-room, un forum di discussione, una casella di posta elettronica, il form con scala metrica, le carte – realizzate per la parte off-line – sulle quali tracciare l’ipotesi progettuale del visitatore, che rappresentano la trasposizione nella dimensione on-line degli strumenti utilizzati in quella off-line.

Dimensione on-line
Dimensione off-line
forum
interviste ed incontri
chat room (sincrono)
riunioni in presenza e brainstorming (sincrono)
mappe per l’interazione
brainstorm progettuale
form con scala metrica
scala metrica

Tabella 12 – Gli strumenti.


Il sito è stato pubblicizzato nell’ambito del quartiere attraverso volantini, incontri in presenza e con i gruppi organizzati, all’esterno attraverso il collegamento al sito del Progetto Ambientale dell’Università di Cagliari, mailing list e una rete di rapporti informali.

L’efficacia comunicativa e la fruibilità del sito è frutto di un compromesso tra le caratteristiche grafiche e il posizionamento dell’oggetto multimediale nel contesto d’uso in relazione alle implicazioni sociali di utilizzo.
I moduli e le carte ricevuti attraverso la rete hanno consentito di valutare, quantitativamente oltre che qualitativamente, la percezione che i cittadini hanno del territorio e di esplicitare le loro immagini spaziali.

Il campione ottenuto è diverso da quello raccolto off-line per i seguenti motivi:
  1. l’età dei soggetti coinvolti, varia tra un minimo di 20 anni ad un massimo di 45;
  2. il grado d’istruzione, normalmente medio-alto (laurea, diploma);
  3. la condizione professionale – 25% di studenti e 52,7% di occupati (in generale impiegati di concetto).
I dati ottenuti sono stati oggetto di un’analisi delle frequenze e di un’analisi fattoriale delle corrispondenze finalizzata al confronto con i dati acquisiti off-line e basata sulle stesse variabili attive e supplementari.


Figura 3 – L’analisi fattoriale dei dati raccolti on-line.
Figura 24 – L’analisi fattoriale dei dati raccolti on-line.


Legenda
Codice
Significato
Classi
E
Età
E1=20-25 anni
E2=26-30 anni
E3=>31 anni
S
Sesso
S1= maschi
S2= femmine
ST
Titolo di studio
ST1= diplomati
ST2= laureati
CL
Condizione lavorativa
CL1= occupati
CL2=disoccupati
CL3= studenti
AF
Aperto fisicamente

AS
Aperto socialmente
GF
Grande fisicamente
VF
Verde fisicamente
VS
Verde socialmente
PF
Pulito fisicamente
PS
Pulito socialmente
NDF
Non degradato fisicamente
NDS
Non degradato socialmente
ACF
Accessibile fisicamente
ACS
Accessibile socialmente

Tabella 13 – Legenda dell’analisi fattoriale riportata nella figura 3.

Dall’analisi fattoriale rappresentata graficamente nella Figura 3 affiorano tre ordini di visioni del quartiere:
  1. positiva: associabile ai soggetti di età compresa tra 26 e 30 anni, oc-cupati. Emerge una maggiore attenzione nei confronti delle potenzialità ambientali dei luoghi, sia dal punto di vista fisico che sociale, rispetto alla situazione contingente di degrado riconosciuta localmente ed esternamente;
  2. indifferente: attribuibile a donne disoccupate di età compresa tra 20 e 25;
  3. negativa: associabile ai soggetti maschi tra i 20 e 25 anni, per lo più studenti, e soggetti con oltre 31 anni, diplomati.

2.3.4 Il confronto tra l’interazione off-line e on-line

Le immagini spaziali ottenute nelle due dimensioni, corrispondenti ad una visione interna (gli abitanti del quartiere) ed una esterna (il resto della città) mostra interessanti analogie (Tabella 5).

Dal confronto tra le risposte fornite alla scala metrica nella dimensione off-line e on-line possono essere segnalate le differenze o le ricorrenze tra le diverse percezioni rispetto al quartiere (Tabella 6).

Se per tutti i soggetti coinvolti la dimensione ambientale è considerata come costitutiva dell’area, il degrado fisico è maggiormente percepito dai non residenti.

È interessante osservare come la condizione di isolamento del quartiere, seppure oggettiva per il sapere tecnico, non sia vissuta dagli abitanti in modo così limitante come avviene invece per il resto della città.

Infatti, la maggior parte delle proposte progettuali elaborate attraverso la rete individuano azioni volte all’incremento dell’accessibilità e della continuità urbana. Queste azioni di riqualificazione, in genere complesse e sofisticate, si riferiscono a categorie interpretative differenti e a luoghi che sono presenti in modo stratificato e consolidato nella mente degli abitanti, mentre sono esclusi quelli più sotterranei dello spazio vissuto.
Quest’ultimo aspetto, che a prima vista può non essere ritenuto rilevante, è indicativo del differente grado di attenzione e di interesse nei confronti del quartiere.

Visione on-line
Visione off-line
Positiva
associabile ai soggetti di età compresa tra 26 e 30 anni, occupati. Si rileva una maggiore attenzione nei con-fronti delle potenzialità ambientali dei luoghi, sia dal punto di vista fisico che sociale, rispetto alla situazione contingente di degrado riconosciuta localmente e al-l’esterno
Positiva
da attribuirsi a persone di età compresa tra i 40 e i 65 anni in prevalenza di sesso maschile, in possesso di una licenza elementare o media, pensionati e disoccupati. Forse questa fascia di abitanti accetta le condizioni generali del quartiere per il maggiore attaccamento ai luoghi e il senso di radicamento nel quartiere
Indifferente
attribuibile a donne disoccupate, di età compresa tra 20 e 25
Indifferente
da attribuirsi a studenti di età compresa tra 0 e 14 anni prevalentemente maschi, che non hanno un’opinione precisa sulla percezione fisica e sociale del quartiere stesso. Probabilmente questo mancato giudizio è da attribuirsi alla giovane età e all’isolamento del quartiere, che limita le possibilità di confronto e di capacità critica tra i più giovani
Negativa
associabile ai soggetti maschi di età compresa tra i 20 e 25 anni per lo più studenti e soggetti con oltre 31 anni, diplomati
Negativa
da attribuirsi a persone di età compresa tra i 15 e i 39 anni, in prevalenza di sesso femminile, che hanno conseguito un diploma o una laurea e hanno un’occupazione. La possibilità di maturare esperienze in altri contesti, per motivi di lavoro e studio, sembra aver influenzato la percezione del proprio ambiente

Tabella 14 – Confronto tra le visioni on-line ed off-line.


On-line
Off-line
Aperto fisicamente
abbastanza
Molto
Aperto socialmente
molto
abbastanza
Grande
molto
Molto
Luminoso
molto
Molto
Verde
abbastanza
Molto
Pulito fisicamente
abbastanza
abbastanza
Pulito socialmente
abbastanza
abbastanza
Silenzioso
abbastanza
Poco
Degradato fisicamente
molto
Poco
Degradato socialmente
abbastanza
abbastanza
Accessibile fisicamente
abbastanza
Molto
Accessibile socialmente
abbastanza
abbastanza

Tabella 15 – Confronto tra la percezione on-line ed off-line.


Da una parte, infatti, l’indagine svolta all’interno del contesto locale mette in evidenza una sorta di rassegnazione – o di ostilità passiva e acritica verso gli interventi proposti dall’Amministrazione comunale – e contemporaneamente un attaccamento ai luoghi. Dall’altra, è possibile rivelare l’interesse della città verso un luogo di elevata qualità ambientale da reintegrare nella trama urbana.

Il problema si pone nel momento in cui si tenta di ribaltare una situazione di marginalità sociale, con progetti finalizzati non tanto alla soluzione del problema che coinvolge i residenti, quanto alla possibilità di “allargare” la dimensione ambientale della città, secondo criteri che discendono da interessi e modelli urbani escludenti.

3. Conclusioni

Il processo interattivo è stato avviato nel quartiere con l’obiettivo di sondare le prospettive di sviluppo di processi comunicativi per l’attività di pianificazione e progettazione attraverso l’interazione diretta e quella mediata da computer, e al tempo stesso con l’intenzione di operare una riflessione critica sulle potenzialità offerte dall’“infrastrutturazione informatica”, che se da un lato può sostenere la democrazia e l’apprendimento collettivo, dall’altro può favorire l’esclusione sociale.

Nel corso del processo gli obiettivi sono stati modificati in seguito alle sollecitazioni del contesto.

Successivamente al loro coinvolgimento nella ricerca, i testimoni privilegiati hanno infatti riconfigurato i rapporti tra le singole associazioni presenti nel quartiere per gestire progetti comuni e, nel contempo, una delle associazioni ha allestito un centro giovanile per il conseguimento della patente informatica europea, richiedendo al gruppo di ricerca un’attività di sostegno ad entrambe le iniziative.

L’esperienza di immersione totale in una situazione di bordo ha posto le basi per un’evoluzione della ricerca, i cui sviluppi sono orientati a strutturare un percorso di apprendimento collettivo in grado di promuovere lo sviluppo di una capacità progettuale e di favorire l’empowerment, come capacità di costruire il futuro in modo autonomo.

Le aspirazioni degli abitanti possono essere tradotte dal planner in azioni, procedure e modalità per l’inclusione, attraverso progetti per il quartiere capaci però di coinvolgere ed interessare il resto della città.

Riconoscendo che il sapere e il linguaggio tecnico, l’operatività, non possono essere totalmente trasferiti (Bacow, Wheeler, 1984; Cass, Edney, 1978), l’impegno del planner si trasforma in disponibilità, in capacità di elaborare studi e progetti, in sostegno tecnico come strumento rilevante per l’inclusione, per il rafforzamento della capacità contrattuale di una micro-comunità debole nei confronti degli altri attori.

In questo caso, la tecnica fornisce un “servizio” e assume un valore argomentativo nel rielaborare criteri e categorie informali di valutazione delle proposte provenienti dall’Amministrazione, per cui il progetto può essere concepito come un processo che incita l’esterno a produrre soluzioni “includenti”, costitutivamente coerenti con le aspirazioni degli abitanti.

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